UNA NOTTE IN GIALLO
Apre il film una bella serie di figuracce da trasmissioni in diretta: il gatto graffia, il cucciolo piscia, il piccione fa la cacca sull’anchorman che inneggia alla natura, la presentatrice del mattino ha il fondotinta in faccia ma il collo è rimasto bianco, lo speaker del telegiornale infila una serie di doppi sensi, l’intervistatore del pomeriggio fa confusione tra un caso umano e l’altro, la lampada crolla e incendia lo studio, il gobbo si blocca sul più bello e bisogna improvvisare. (Le “Figuracce” degli scrittori italiani invece, a giudicare dal libro curato da Niccolò Ammaniti per Einaudi, non sono davvero tali: l’incidente più frequente è una ragazza che si innamora di te e ti vorrebbe sposare dopo neanche un bacio, oppure che ti tempesta di lettere e si presenta in abbigliamento succinto a una cena editoriale). Se questi sono i titoli di testa, pensiamo, “Una notte in giallo” sarà divertentissimo. Non lo è – con tutta la buona volontà che ci può mettere lo spettatore, in questo caso perlopiù la spettatrice – nonostante gli sforzi eroici di Elizabeth Banks, che passa indenne attraverso situazioni da cinepanettone (solo le battute etniche riescono). Era Effie Trinket nella saga “Hunger Games”: a lei toccava il compito di tirare a sorte, in ogni distretto di Panem, i nomi dei due concorrenti da buttare nell’arena. Lo faceva agghindata in completini da delirio lisergico: scarpe, capelli, trucco e abiti tono su tono, una volta albero di Natale una volta giungla con uccelli variopinti. Qui ha un tubino giallo, prestato da un’amica per una notte da leonesse. La ragazza, dopo tanta gavetta in tv, avrebbe dovuto festeggiare la promozione ad anchorwoman. Le è stata preferita una collega dal nome asiatico, che non ha neppure gli occhi a mandorla perché è stata adottata, quindi non c’è la scusa della correttezza politica. Non bastasse, il fidanzato l’ha lasciata nel pomeriggio, portandosi via l’arredamento di casa. Locale per femmine sole in cerca di compagnia, molto alcol, facile ritrovarsi nel letto di uno sconosciuto. Meno facile rendersi conto che la collega asiatica ha rinunciato all’incarico, che c’è un nuovo colloquio da superare di lì a poche ore, che non hai un dollaro in tasca, che lo smartphone è perduto, la carta di identità pure, e con quel vestito addosso e l’aria stropicciata sul marciapiede di mattina ti scambiano per una puttana.
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