TRASH

Mariarosa Mancuso

La cattiva coscienza sta nei dettagli. Uno dei tre ragazzini – Gabriel detto Rato – viene presentato come il reietto dei reietti.

La cattiva coscienza sta nei dettagli. Uno dei tre ragazzini – Gabriel detto Rato – viene presentato come il reietto dei reietti. Vive in una favela di Rio De Janeiro e campa rovistando nella spazzatura, come gli altri due che vediamo all’inizio (trovano un portafogli con soldi, una chiave, una foto su cui qualcuno ha scritto dei numeri: da qui parte la trama, che alterna scene d’azione a lente decifrazioni di messaggi segreti, fanno prima in “The Imitation Game” e risolvere i misteri della crittografia nazista nota come codice Enigma). Rato ha preso alloggio in una fogna, invece che nella solita baracca (gli slum di “The Millionaire”, regia di Danny Boyle e otto Oscar vinti nel 2009, hanno fatto scuola, come le magliette sbrindellate ma sempre in nuance dei poveri vestiti Benetton). Tutti lo evitano, anche in quel postaccio dove l’acqua è marroncina e i rifiuti si rivendono, perchè ha la scrofola. Se non proprio la scrofola – il film ha messaggi più importanti da lanciare, sorvola sui dettagli da enciclopedia medica – una malattia che lascia tracce sulla pelle. Passano cinque minuti, bastanti per una miracolosa guarigione: Rato, che prima si copriva vergognoso con la maglietta, rispunta in canottiera, con la pelle a posto, scugnizzo più carino che mai. Il regista – lo stesso di “Billy Elliot” e di “The Hours”, qui in caduta libera verso lo spot umanitario – vuole farci palpitare per la misera gioventù delle favelas, ma sa benissimo che le croste o le mosche possono essere d’impedimento: qui non se ne vede neanche una, Rato ha sempre i capelli puliti con ciocche biondastre (non è cinismo, è rispetto per il cinema). Vincitore del premio del pubblico all’ultimo e democratico Festival di Roma, “Trash” strappa a tutti i professionisti che ci hanno lavorato il peggio di sé: oltre a Stephen Daldry, lo sceneggiatore Richard Curtis di “Love Actually”, il produttore e regista brasiliano Fernando Mireilles, che con “City of God” inaugurò il filone action&favelas. Si capisce che lo hanno studiato a tavolino per commuovere gli spettatori britannici – lo vedranno il prossimo gennaio, altra conferma alla regola: “se un film esce da noi prima che in patria, qualcosa non va”. In America non ha ancora una data di uscita, bel contrappasso per un film sbrigativamente definito “hollywoodiano” da chi piange in sala e all’uscita vuole darsi un contegno.

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