WHIPLASH

Mariarosa Mancuso

Per assoluta casualità – i film hanno storie diverse, registi di età e formazione inconfrontabili, per tacer dei ritmi rispettivi e della resa fotografica – arrivano nelle sale con poche settimane di scarto due storie sul faticoso lavoro che chiamiamo arte.

    Per assoluta casualità – i film hanno storie diverse, registi di età e formazione inconfrontabili, per tacer dei ritmi rispettivi e della resa fotografica – arrivano nelle sale con poche settimane di scarto due storie sul faticoso lavoro che chiamiamo arte. Perfetti per spazzare via l’idea che musica o pittura siano praticabili da chiunque voglia esprimere quel che ha nel cuoricino, come pretendono i cascami del romanticismo ancora imperanti (la tragedia diventa farsa quando il già deprecabile luogo comune si intreccia con i dettami della didattica che invece di spedire i bambini a teatro o al concerto li fa recitare o suonare il piffero, male come si conviene ai dilettanti). Tanto basta perché “Turner” di Mike Leigh e questo “Whiplash” meritino un primo applauso. Il “pittore della luce” non si commuove davanti ai tramonti, usa talento e tecnica per rifarli sulla tela. Nel film di Damian Gazelle, trentenne ex batterista ora candidato a cinque Oscar, un maestro facile allo scatto d’ira e severo fino a contemplare punizioni corporali cerca di tirare fuori il meglio da un allievo promettente e ambizioso. La follia è a due: esercitandosi a suonare, rispettando il tempo in sette quarti, il classico del jazz che dà il titolo al film, il giovanotto si riduce le mani a una poltiglia sanguinante. Mai prima si era visto un film sull’ossessione artistica che sconfina con il masochismo: al cinema rende meglio l’accoppiata tra genio e sregolatezza sconfinante nella pazzia, con il solito contorno di critici e pubblico contrari alle novità. Qui invece sono prove e riprove d’orchestrina jazz (con molta invidia da parte nostra, lo confessiamo, per gli spettatori che al grido “rallenta” o “accelera” riescono a cogliere la differenza). Al sadico e fantasioso maestro – mai un insulto uguale all’altro, e in realtà la parola non rende bene l’idea, sono piccole sceneggiate che umiliano pubblicamente l’allievo, in gara con due sostituti per il posto in orchestra – Chazelle regala la faccia scultorea di J. K. Simmons, già carcerato razzista e crudele nella serie tv “Oz”. Un incanto di bravura e di terrore, che ha spinto Richard Brody a scrivere sul New Yorker una recensione infuriata per leso jazz. La musica deve essere una festa, sostiene. Per chi la ascolta, forse. Chi la suona, al pari di chi fa il cinema bene come Damian Chazelle, sa cosa sta dietro alla perfezione.