Banalità spacciate per geniali intuizioni. Ecco "Youth" di Sorrentino
"Occhi chiari e acquosi, addensati di malinconia e perspicacia”. Sono gli occhi di Michael Caine, descritti da Paolo Sorrentino nella sceneggiatura di “La giovinezza” (Rizzoli). Pacchetto regalo con il biglietto del cinema se avete promesso a qualcuno un viaggio nel midcult, e non dimenticate la scatola di cioccolatini con una ballerina di Degas stampata sopra (purtroppo non è nostra, la definizione di “pittore per scatole di cioccolatini” sta in “La luna e sei soldi” di William Somerset Maugham). Addensati? Addensati, certo. Siamo artisti, mica mestieranti, e poi con “acquosi” fa tanto grande scrittore “addensato di intensità”. La citazione serve perché Sorrentino gira con lo stesso stile. Banalità spacciate per geniali intuizioni. Dialoghi pesanti come pietre, alternati a battute di spirito: non fosse che a volte è difficile distinguere tra le due modalità, soprattutto quando recita Toni Servillo. Immagini rubate a tutto il cinema conosciuto, con una predilezione per Federico Fellini. Quel che era avanzato dopo la razzia precedente a “La grande bellezza”, viene proposto qui, in ordine sparso e su uno sfondo alpino. Per fortuna gli occhi di Michael Caine sono molto meno addensati di come pretende il regista, e assieme agli occhi di Harvey Keitel danno un po’ di brio al film. Il primo è un direttore d’orchestra ottantenne, vedovo in vacanza con la figlia (piuttosto inutile, nell’economia del dramma, serve solo per rimproverare a papà di averla trascurata da piccola). Non vuole più dirigere, neanche se glielo chiede la regina Elisabetta. L’altro è un regista, più o meno coetaneo, che con una piccola truppa di sceneggiatori cerca il finale per un film-testamento (non è chiaro chi paga i conti all’albergo svizzero: quando Jane Fonda passa di lì, in qualità di antica musa, spiega che oggi le cose belle si fanno in televisione). Parlano di una remota fidanzata che entrambi hanno avuto, o forse non avuto. Si informano su come è andata la pisciata del mattino. Guardano gli altri ospiti, osservano il personale. Due buoni motivi per chiedere al concierge del “Gran Budapest Hotel” di Wes Anderson se lì hanno ancora una camera libera. Miss Universo, un ciccione che palleggia come Maradona, una massaggiatrice con l’apparecchio ai denti, un monaco buddista in meditazione che cerca di staccare le chiappe da terra.
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