THE TRIBE
Esperienze cinematografiche estreme 1. Parlano, e anche parecchio. Nella lingua dei segni ucraina, una delle trecento esistenti al mondo. Senza sottotitoli. Orientano lo spettatore i gesti di minaccia, gli scontri per la supremazia, qualche accoppiamento coreografico, le urla di dolore per un aborto praticato in un gabinetto, la poveretta sopra un lavandino con un elastico a tenere le gambe in posizione. Non è che ve lo sconsigliamo, “The Tribe” si sconsiglia da sé, nonostante il premio l’anno scorso a Cannes, sezione “Settimana della critica”. I frequentatori di festival possono scovare motivi di interesse in un film che vorrebbe riproporre l’esperienza del cinema muto: però c’erano le didascalie e nei primi anni, quando non tutti gli spettatori sapevano decifrarle alla velocità richiesta, anche imbonitori che le leggevano ad alta voce. Possono apprezzare, anche se con qualche sforzo, l’unicità e il partito preso: una scelta radicale che costringe a un esercizio di decifrazione lungo oltre due ore. Faticoso, e alla fine esasperante: uno sfoggio di bravura da acrobata sul filo, che insiste nel suo numero, buono soltanto a ricevere gli applausi dei cinefili durissimi e purissimi (o sofferenti di frigidità cinematografica: reagiscono con un brivido soltanto alle frustate). Il giovane Sergey – nome che ricaviamo dai titoli di coda - viene accolto in un istituto per sordomuti. Prima lezione, l’insegnante pare stia spiegando la Comunità Europea, e unico momento tranquillo. Subito dopo, nelle camerate e nei corridoi che il regista Myroslav Slaboshpytskkiy (nato a Kiev 40 anni fa, “The Tribe” è il suo primo lungometraggio) inquadra sempre tenendosi a distanza, comincia l’educazione criminale. Le fanciulle vengono avviate alla prostituzione (i clienti sono camionisti fermi in un parcheggio). Più tardi vedremo una lunga fila fuori dall’ambasciata italiana, terra promessa per esportare l’attività. Sergey si innamora di Anna, infrangendo le regole della tribù, e lei subito rimane incinta. “Il cinema non sarà più lo stesso”, recita il manifesto preparato per l’uscita italiana. Un atto di incoscienza, più che di coraggio: non sarà più lo stesso lo spettatore, nel senso che perderà l’amore per il cinema, se distrattamente (o fidandosi di quel che legge) entrerà in sala. A tutto c’è un limite. Anche alle sofferenze inflitte con la scusa dell’Arte.
Il Foglio sportivo - in corpore sano