THE ZERO THEOREM - TUTTO E' VANITA'

Mariarosa Mancuso

Una telefonata che sveli il senso della vita e fornisca la chiave per la felicità? Non è lo snodo più bizzarro dell’ultimo film diretto da Terry Gilliam. No, non avete perso un pezzo: ultimo significa del 2013, era a una Mostra di Venezia e l’avevamo quasi dimenticarlo senza rimpianti. Intanto, ebbene sì, l’americano dei Monty Python – era lui a disegnare i siparietti con i piedoni e i fiori – sta rimettendo mano a “The Man Who Killed Don Quixote”, progetto già finito in un disastro una decina di anni fa (“Fallire ancora, fallire meglio”, suggeriva Samuel Beckett). Non ci aspettiamo dal regista una costruzione ordinata e coerente. Ma anche le distopie devono aver una loro logica, per quanto perversa.

 

Ammucchiare elementi provenienti da ogni dove e servirli dopo averli buttati in uno shaker produce un cocktail indigesto - oltre al resto la sceneggiatura di Pat Rushin risale al 1999, in materia di hacker e cyberpunk equivale a mezzo secolo. “Brazil” aveva metodo – e una cascata di idee brillanti – nella sua follia. Ne aveva un po’ meno “L’esercito delle 12 scimmie”, secondo capitolo della trilogia che con “The Zero Theorem” giunge a compimento. Tra i film che uniscono ambizione sfrenata, svolgimento zoppicante e uno sfarzoso cast di amici che lavorano a paga sindacale, pur di lavorare con il maestro possiamo mettere anche “Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo” (per non infierire, meglio divertirsi leggendo “Gilliamesque – Un’autobiografia pre-postuma”, illustratissima e uscita da Sur). Riprendiamo dall’inizio: Qohen Leth - ricorda “Qoelet”, ovvero l’Ecclesiaste, da cui è tratto il titolo italiano “Tutto è vanità” – attende la telefonata che dovrebbe svelargli il senso della vita.

 

Lavora per una Megaditta (direbbe il ragionier Fantozzi) chiamata Mancom e vive in un antro che somiglia a una chiesa sconsacrata, riempita di cianfrusaglie come solo l’arredatore apocalittico Terry Gilliam sa fare (sono la cosa più interessante del film). Un hacker, insomma, ma di quelli tormentati. Chiede una visita psichiatrica, gli forniscono Tilda Swinton che certifica: “Tutto normale”. A vedere gli occhi e il cranio pelato di Christoph Waltz comunque non sembra. Quando non fa calcoli complicatissimi – prima di prendere a martellate il computer, scena ormai da sbadiglio – pure le olive del martini gli vanno di traverso.

 

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