BLADE RUNNER 2049

di Denis Villeneuve, con Ryan Gosling, Harrison Ford, Sylvia Hoeks, Carla Juri, Jared Leto

Mariarosa Mancuso

Bello, bellissimo, una festa per gli occhi. Mollati i poliponi che a bordo di cozze giganti erano venuti sulla terra per comunicare con noi tramite schizzi di inchiostro – doveva pur esserci un modo più sempre per suggerire “amatevi come fratelli” – il canadese rimette a nuovo “Blade Runner”. Applausi senza riserve agli ambienti, splendidamente fotografati da Roger A. Deakins: gigantesche discariche con bambini lavoratori in stile Dickens, Las Vegas con gli ologrammi delle celebrità – Elvis non è morto, canta ancora ma è afflitto da qualche glitch –, la megaditta che fabbrica i replicanti tutta oro con riflessi da piscina, casupole per fuggiaschi con la pentola che sobbolle sul fuoco (il fil di fumo resisterà fino alla fine della scazzottata, ricorda il becco a gas lasciato acceso dal servo Passepartout nel “Giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne). Applausi anche gli attori, frutto di un cast preciso al millimetro (e Harrison Ford dimostra che si può tornare in un sequel a distanza di decenni senza stringere il cuore come in “Star Wars - Il risveglio della forza”). Si cacciano replicanti, anche qui: “lavori in pelle” non riconciliati con il loro destino di macchine senz’anima, fabbricate per sbrigare i lavori che gli umani non vogliono più fare. Vecchi modelli che guastano la reputazione della ditta diretta da Jared Leto, hipster con gli occhi velati (“un occhio di un azzurro pallido, velato da una membrana” scatena la furia dell’assassino - per futili motivi - nel racconto “Il cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe). Li insegue Ryan Gosling, replicante sottoposto dopo ogni missione a un test per accertare che non sia stato contagiato dalle fantasie dei manufatti antichi. Ha una fidanzata virtuale - il tipo che si accende e soprattutto si spegne con il telecomando - e ricordi altrettanto virtuali. Ma chi li fabbrica? La nascita della replicante - dal bustone di plastica, esce ancora umida - ricorda il “Frankenstein” di Mary Shelley (l’elettricità verrà con il film). Trama: quanto basta, ma siamo così presi a guardare i cavallini di legno, la città sotto la pioggia e le fornaci dismesse che non ne sentiamo la mancanza.

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