DOGMAN
di Matteo Garrone, con Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Gianluca Gobbi, Marcello Fonte
Che si può dire ancora dell’ultimo film di Matteo Garrone, dopo aver invocato per lui tutti i premi del Festival di Cannes (sapremo sabato sera se oltre ai due Grand Prix per “Gomorra” e per “Reality” sarà finalmente Palma d’oro). Si può dire che, unico tra i registi italiani, Matteo Garrone usa le immagini per raccontare storie. Sembra il minimo sindacale, ma il suo grande rivale Paolo Sorrentino – tanto per accendere la miccia, sono davvero due idee di cinema all’opposto – quando va bene lustra e cesella le inquadrature e lascia perdere il resto.
Il metodo Garrone, se applicato a una storia universale e potente come quella di “Dogman”, produce un film senza un minuto di troppo, e senza un minuto sbagliato. Posti squallidi al cinema ne abbiamo visti tanti, ma qui il direttore della fotografia Nicolai Brüel li spoglia di qualsiasi risvolto sociologico o cronachistico. E’ un brutto posto, con pozzanghere e neon tremolanti sul punto di spegnersi, dove un toelettatore di cani – che con un cane vive e con lui si spartisce i maccheroni, uno a te e uno a me – lima le unghie agli alani, fa la cresta ai barboncini prima del concorso di bellezza, all’occasione spaccia qualche bustina di droga. Il canaro, appunto: il film prende spunto dalla cronaca nera (come “L’imbalsamatore”, nel 2002). Avviso ai sensibili, a chi teme un eccesso di violenza e ha a cuore la sorte del genere canino: sono gli umani che si fanno male in “Dogman”, e anche quella violenza è mostrata quanto basta. Marcello Fonte è un attore magnifico, con la sua vocetta e gli occhi alla Buster Keaton (da cinema muto anche qualche gag con i cani). Il picchiatore del quartiere – l’attore è Edoardo Pesce – ha la stazza giusta per sovrastarlo e smuoverne le resistenze, trasmettendo allo spettatore terrore e di compassione per il debole che non trova via d’uscita. Ai meriti di Matteo Garrone va aggiunta una direzione d’attori impeccabile. Abbiamo detto fin troppo, abbastanza per farvelo diventare antipatico (e cercare di trovargli un difetto qualsiasi, è il gioco delle aspettative). Ma che bello avere ogni tanto un film italiano per cui viene voglia di fare il tifo.