L'atelier
di Laurent Cantet, con Marina Fois, Matthieu Lucci, Warda Rammach, Issam Talbi, Mamadou Doumbia
Confessiamo un pregiudizio verso i film con gli scrittori al lavoro (peggio che mai in canottiera, come Colin Farrell in “Chiedi alla polvere” di Robert Towne). Pregiudizio esteso ai film con i lettori che leggono, son sempre messi in mostra come disadattati o depressi (ultimo esempio pervenuto, Veronica Lario che legge Iosif Brodskij e José Saramago in Loro” di Paolo Sorrentino). Confessiamo i nostri pregiudizi, ampiamente sostenuti dai fatti: gli scrittori al cinema sono sempre un po’ ridicoli, pronti a pronunciare frasi memorabili su se stessi e sul mondo circostante. Non li vediamo mai fare il mestieraccio che ha reso grande Philip Roth, e che sullo schermo non rende: “Scrivo una frase e la giro. Scrivo un’altra frase e la giro. Le rileggo e le giro tutte e due. Vado a pranzo, torno e le cancello” (aggiungeva di aver smesso di scrivere perché aveva passato troppi anni “in solitudine e nel fondo di una piscina, questo fanno gli scrittori”: non esiste spettatore così masochista che abbia voglia di guardare uno che sta solo nel fondo di una piscina). Non fa eccezione alla saccenteria la romanziera che in “L’atelier” anima - dicono così, per rendersi ancora un pochino più antipatici - un laboratorio di scrittura a La Ciotat, terra di cantieri navali chiusi negli anni 80. Nella cittadina balneare, i fratelli Lumière girarono l’arrivo del treno in stazione che tanto spaventò i primi spettatori. Terra di ragazzi e ragazze che non hanno memoria del passato: quando devono scrivere tutti insieme un romanzo con la città sullo sfondo non sanno da dove iniziare. Preferirebbero parlare di loro e dei loro problemi, variamente rappresentati: immigrati, figli di immigrati, figli di lepenisti che sognano l’esercito perché ci sono troppi stranieri venuti a rubarci il lavoro che non c’è. adolescenti che fanno un pensierino erotico sulla maestra scrittrice di thriller. Laurent Cantet aveva diretto “La classe”, Palma d’oro al festival di Cannes 2008. Robin Campillo - qui solo sceneggiatore - aveva scritto e diretto “120 battiti al minuto”, premio speciale della giuria a Cannes 2017. Il miracolo non si ripete. La voglia di messaggi guasta anche i migliori.