A quiet passion
di Terence Davies, con Cynthia Nixon, Keith Carradine, Jennifer Ehle, Catherine Bailey
“Questo piatto è sporco” brontola il vecchio genitore. Con la figlia, non con la servitù: dettaglio curioso giacché siamo nel Massachusetts di metà Ottocento, e il genitore somiglia alla statua di Abramo Lincoln. La figlia rompe il piatto, e risolve il problema: “Ora non è più sporco”. Vita quotidiana in casa di Emily Dickinson, la poetessa che visse solitaria vestita di bianco e con Walt Whitman configurò la poesia americana. Il più contemplativo dei registi britannici - con “Voci lontane… sempre presenti” vinse il Pardo d’oro a Locarno nel 1988, da allora ha compiuto un altro paio di blitz letterari, adattando John Kennedy Toole e Edith Wharton – affronta il biopic più difficile che esista. Della ragazza infatti si sa pochissimo, le poesie per la maggior parte uscirono postume, la vita da reclusa con qualche scambio di lettere al cinema non rende. Le scene meglio riuscite raccontano la ribellione al collegio (“un caso di acuta evangelizzazione”) e hanno l’andamento di un romanzo di Jane Austen. Una zia grassa e devota scrive versi noiosissimi, per celebrare la famiglia Dickinson – “i vostri versi sono pari al vostro talento”, dice Emily. Perfino la scrittrice dilettante sospetta che non sia un complimento (noi l’adotteremo per i futuri manoscritti che passeranno da queste parti in attesa di giudizio). Una certa Vryling Buffum, più sveglia e tagliente di quanto non fosse consentito allora a una ragazza di provincia in cerca di marito, fornisce gli altri intermezzi comici, da sotto l’ombrellino parasole: “Andare in chiesa è come andare a Boston, sei felice solo quando torni a casa”. Ella però ha l’occhio lungo, quando sussurra all’amica Emily che dubita delle proprie qualità: “Tu non dimostri, riveli”. Comincia la retorica, a cui neppure Terence Davies sfugge, come non sfugge alle letture sulla guerra civile o sui funerali. Cynthia Nixon fa la parte di Emily aggiungendo ironia alla rigidità da ritratto. Una zitella che lavora con le parole, per nulla invasata come pretende il serioso fan club femminista. Tra le lentezze – cresce almeno mezz’ora – almeno si poteva godere l’incantevole inglese che il doppiaggio italiano distrugge.