IL MIO CAPOLAVORO

La recensione del film di Gastón Duprat con Guillermo Francella, Luis Brandoni, Raúl Arévalo

Mariarosa Mancuso

Il cittadino illustre” sfotteva gli scrittori che tornano al villaggio dopo il Nobel e si aspettano onori (invece, siccome nei romanzi il paesello natio era descritto come un incubo, e i compaesani come buzzurri, l’atterraggio non è dolce come pensava). “L’artista” sfotteva pittori e critici d’arte: “Quando dico interessante vuol dire che non mi interessa”. Questo attendevamo da “Il mio capolavoro”: la satira contro chi deve giudicare una serie di quadri, e premia il cartone che ha fatto da tela – la pubblicità di una multinazionale, quindi c’è anche il risvolto politico. Siamo a Buenos Aires, il gallerista Arturo Silva al volante della sua auto – confessa subito di essere un assassino. Cinque anni prima, lo vediamo con l’amico pittore Renzo Nervi, che si ostina a dipingere quando i giovani artisti appendono qualsiasi cosa alle pareti delle gallerie. Invitato a far qualcosa di più moderno, spara un paio di colpi di pistola contro il suo dipinto. Poi ha un incidente, e perde la memoria. Da qui in avanti i colpi di scena ci sono – anche il critico hipster e la giovane fidanzata che si fotografa nuda con un trapano. Manca la cattiveria sfoderata nei film precedenti.

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