L'UOMO DAL CUORE DI FERRO

La recensione del film di Cedric Jimenez, con Jason Clarke, Jack Reynor, Mia Wasikowska

Mariarosa Mancuso

Praga, 27 maggio 1942. Due impavidi giovanotti della residenza ceca addestrati a Londra sbucano dal loro nascondiglio per uccidere Reynard Heydrich, soprannominato “Il macellaio” per la costanza con cui ammazzava gli ebrei in Boemia e Moldavia. Tanta pratica lo spinse a fare le cose più in grande: fu lui a architettare la Soluzione Finale, consegnando il progettino a Heinrich Himmler. Da qui l’acronimo “HHhH” sulla copertina del romanzo di Laurent Binet (Einaudi), tradotto nel sottotitolo come “Il cervello di Himmler si chiama Heydrich”. Era invece Hitler in person a chiamarlo “L’uomo dal cuore di ferro”. Il mitra dell’impavido giovanotto si inceppa, una bomba cerca di finire il lavoro, lo spettatore viene fatto tornare indietro, alle prime imprese e all’ascesa del nazista. Molto contribuirono un incidente con una ragazza, e una moglie fanatica, ma evidentemente era predisposto. Siamo di nuovo alla sparatoria finita male, e comincia la parte più appassionante di un film che sembrava noiosamente avviato verso la biografia del mostro. La prospettiva è ora dalla parte dei due giovanotti: arrivo a Praga, preparazione dell’attentato, disperato tentativo di fuga.

 

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