L'uomo che comprò la Luna
La recensione del film di Paolo Zucca, con Jacopo Cullin, Stefano Fresi, Benito Urgu
Bell’idea, bella partenza, belle gag. Poi tutto si annacqua in un elogio della sarditudine che prima era oggetto di satira (possibile che i film italiani debbano sempre perdersi a metà strada?). Peccato, perché il corso per diventare sardi impartito dal pastore all’agente che dovrà indagare sull’isolano che si è comprato la luna, o almeno un pezzo di luna, è piuttosto divertente (l’agente, da parte sua, si chiamerebbe Gavino ma si fa chiamare Kevin). “Silenzio” è la prima regola. L’agente non è sveglissimo, è il tipo che si impiglia con il paracadute e si spara sui piedi. Però impara presto. I caratteri nazionali, per esempio: “Lealtà, permalosità, latente superiorità”. Il vino che va bevuto a schiena dritta, così non fa in tempo a ubriacare. Il prelibato formaggio con il brulichio dei vermi. Il fischio da pastore. La corsa del latitante, ad altezza di macchia mediterranea. Pronto per la missione, viene fornito di stivali, fucile, coppola e completo di velluto. E mandato là dove anche gli autisti dei bus vomitano per le curve. Fa tenerezza, tanto è diverso dai film italiani che hanno soldi da spendere ma non si preoccupano di tirar fuori qualcosa di originale.
Politicamente corretto e panettone