Quel giorno d'estate
La recensione del film di Mikhaël Hers, con Vincent Lacoste, Stacy Martin, Isaure Multrier
Il 21 giugno scatterà la nuova estate cinematografica – la prima in Italia che finalmente dovrebbe allettare gli spettatori con i blockbuster americani e i film piccoli ma imperdibili. Aspettiamo fiduciosi, finora i tre titoli arrivati da Cannes – “Il traditore” di Marco Bellocchio, “Dolor y gloria” di Pedro Almodovar, “Rocketman” di Dexter Fletcher – spiccano su uno sfondo indistinto di proposte che faticheranno a trovare spettatori. Sarebbe ora di riflettere su come funziona la distribuzione, e sulla capacità di assorbimento del mercato (una decina di titoli a settimana non li tengono a mente neppure gli addetti ai lavori, figuriamoci chi va al cinema una volta al mese). “Quel giorno d’estate” era a Venezia nella sezione Orizzonti, il concorso destinato alle opere più audaci e sperimentali. Racconta la storia di David, un giovanotto che dopo un attentato terroristico a Parigi si prende cura della nipote Amanda, sette anni (lui ne ha 24, lo scarto minimo richiesto per l’incarico di tutore è 15). Lo sappiamo prima di andare al cinema, perché è così che il film viene venduto. Ma allora cosa c’è di sperimentale? C’è il fatto che il film parte minimalista: la bambina che a scuola aspetta qualcuno che la venga a prendere, la mamma è impegnata e lo zio fa il check-in degli appartamenti in affitto, non c’è ospite che non arrivi in ritardo (tranne la ragazza carinissima, infatti è Stacy Martin che faceva Anne Wiazemsky in “Il mio Godard”, e si vedeva parecchio nuda anche in “Nymphomaniac” di Lars Von Trier). In programma avevano un viaggio in Inghilterra, la mamma che aveva abbandonato David e la sorella Sandrine aveva rotto un silenzio durato 20 anni. Dopo l’attentato al parco – morti e i feriti già a terra, senza un urlo, il sonoro sparisce completamente – il minimalismo aumenta, in una Parigi quasi deserta, grigia e livida. Il giovanotto che a malapena sapeva badare a se stesso deve preparare colazioni e pranzi, consolare le lacrime, placare gli incubi, rispondere alle domande. Gli attori sono bravi, la regia punta dritto verso il suo obiettivo: lutto e malinconia. Gelidamente, come si conviene a un film d’autore che sdegna il melodramma.