Il Signor Diavolo
La recensione del film di Pupi Avati, con Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini, Gianni Cavina, Chiara Caselli
Ascoltino i sostenitori della decrescita felice. Un camioncino gira per le campagne raccogliendo la pipì delle donne incinte (immaginiamo, per sperimentare un test di gravidanza). Una ragazza si fa vedere nuda in cambio di un coniglio. Tutto intorno è grigio e desolato. Mai la campagna autunnale è stata fotografata – da Cesare Bastelli – in maniera così realistica, con un sovrappiù di cupezza perché siamo in un film dell’orrore (in quest’anno non travolgente per il cinema, a partire da “Noi” di Jordan Peele, sono i titoli che danno più soddisfazione). Corre l’anno 1952, nelle terre venete scosse da un brivido: un adolescente ne ammazza un altro. Interrogato, l’assassino riferisce che lo ha fatto per liberarsi dal Signor Diavolo, a sua scusante racconta di ostie cadute e accidentalmente calpestate il giorno della Prima comunione. Nel Veneto cattolico e democristiano, arriva un ispettore da Roma per indagare sulla faccenda. Il diavolo presunto, da parte sua, è assai deforme (bastava e avanzava per attirarsi la diffidenza dei contadini). Se provocato mostra denti da vampiro, è il figlio unico di una ricca signora, si sussurra abbia sbranato a morsi la sorellina (la mamma potrebbe essersi accoppiata con il maligno). Avvicinamento notturno alla culla, tuffo verso la creatura addormentata, cortine e copertina zuppi di sangue. Pupi Avati con i film dell’orrore ci sa fare (“gotico padano” secondo la sua definizione, anche se “Zeder” e “La casa delle finestre che ridono” hanno propaggini a Bologna e a Ferrara). Da quando girava i suoi primi film le regole del gioco si son fatte più macabre e “Il Signor Diavolo” non sfigura. Per la violenza di certe immagini (una scena ricorda Edgar Allan Poe, quando il protagonista di “Berenice” cava i denti alla cugina morta). Per la scelta delle facce che spaventano già in piena luce, figuriamoci in penombra. Per la tensione sapientemente costruita, e per un finale che – evviva – è un vero finale, non una scena malamente accomodata. Rispetto al luogo, al decennio, al realismo, purtroppo i dialoghi sono un tantino “alti”, considerando che era gente che a malapena se la cavava con il dialetto. Consideriamola una licenza poetica.