Ad Astra
La recensione del film di James Gray, con Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Ruth Negga, Donald Sutherland
Magari è lo spazio profondo che disturba. Nella versione “Quando vedo tutto questo capisco che Dio esiste” (copyright Terrence Malick), oppure nelle “Spheres” di Eliza McNitt, prodotto da Darren Aronofsky con voce narrante di Jessica Chastain: era l’anno scorso alla Mostra di Venezia (sezione “realtà virtuale” con cuffie e occhiali 3D) e non è stato un bel momento, soli nel cosmo ribollente senza qualcosa di interessante da leggere. Eppure abbiamo visto con piacere “Gravity” di Alfonso Cuarón e “First Man” di Damien Chapelle (anche “2001: “Odissea nello spazio”, a dimostrazione che non siamo refrattari a un po’ di filosofia aggiunta). “Ad Astra” inizia solennemente con l’annuncio: “In tempi di speranze e di conflitto l’umanità scruta lo spazio in cerca di vita intelligente” (forse in un telefilm anni 50: adesso vien da ridere). C’è una tempesta magnetica – e ce n’è sempre una, ormai dovreste saperlo e non farvi disarcionare dai tralicci come il provetto astronauta Brad Pitt. Siamo in un futuro abbastanza lontano da avere turisti anche sulla Luna, pronti a farsi i selfie con l’alieno finto in modalità gladiatore al Colosseo. La faccia nascosta della luna pare una zona di guerra mediorientale: se non corri abbastanza veloce sulle strade dissestate arrivano i predoni E’ solo una tappa verso Marte, e poi verso Nettuno (sono strani anche gli “spettrogrammi di Nettuno”, non funziona niente lassù). Missione per Brad Pitt: trovare papà Tommy Lee Jones, partito anni prima per il lontano pianeta senza più dare notizia di sé, né alla moglie né al figlio giovinetto (qui è quando il critico che tutto vede – tranne quel che passa sullo schermo – cita il colonnello Kurtz di “Apocalisse Now”). La scelta del casting parrebbe bizzarra, ma Brad Pitt e Tommy Lee Jones hanno davvero un’aria di famiglia. Troppo poco per reggere un film dove la stanza relax ha gli anemoni – o altri fiori poetici, non siamo forti in botanica – proiettati sulle pareti del cubicolo. Preghiamo perché James Gray torni alla “Little Odessa” dei suoi primi film, dove per fare tornare la fidanzata che accusa “tu pensi solo al lavoro” non viene scomodato un arsenale di effetti speciali.