Le verità
La recensione del film di Hirokazu Kore-eda, con Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Ludivine Sagnier
L’israeliano Eshkol Nevo ha scritto tutto un romanzo in forma di intervista, a uno scrittore che prima si alzava dal letto felice e oggi si sveglia triste. “L’ultima intervista” (appena uscito da Neri Pozza) è un catalogo di domande a cui quasi nulla sfugge, dal banale all’impertinente. Catherine Deneuve apre “Le verità” con una lezione su come si rosola a fuoco lento l’intervistatore tremebondo davanti alla diva. Gli segnala che ha sbagliato la scaletta (“ma questa domanda sul Paradiso non me la dovrebbe fare alla fine?”). Ostenta smemoratezze di comodo (ma non era morta? Mi sembra di essere andata al suo funerale?). Cavilla sulla parola “attrice” (quando si parla di Brigitte Bardot). Per contorno: occhiatacce e quel tanto di broncio consentito in età matura senza imbruttirsi. Quando una madre così scrive la propria autobiografia non c’è scampo per nessuno (letteralmente: un marito viene dato per morto). Invano la figlia Juliette Binoche, di mestiere sceneggiatrice, aveva chiesto di leggerla prima che fosse pubblicata. E la sciagurata aveva promesso: “Certo cara, la leggerai”. Non lo fa, e la figlia arrivata da New York ci rimane malissimo, partono le scaramucce su “pensavi solo ai tuoi film, ai vestiti, agli amanti registi per sottrarre i ruoli alla rivale” (trascuratezza già mirabilmente espressa dalla canzonetta “Balocchi e profumi”, anno 1928). Catherine Deneuve – al massimo della forma e dell’autoironia – è il motivo numero uno per vedere l’ultimo film del giapponese Kore-eda, Palma d’oro a Cannes nel 2018 con “Un affare di famiglia” (l’originale suonava “ladruncoli”). Purtroppo non esiste un motivo numero due: la rivalità tra madre e figlia – dovremmo parteggiare per la bistrattata, invece facciamo il tifo per la madre, afflitta da una lagnosa – sta tra le trame bisognose di una moratoria. E’ un omaggio al cinema francese, girato su un set dove si parlavano con l’interprete (ma sembra che il regista coltivasse il progetto da 14 anni). I cinefili nostalgici apprezzeranno l’abito nero con il collettino bianco, lo stesso che Catherine Deneuve indossava in “Belle de Jour” di Luis Buñuel.