Scary stories to tell in the dark
Recensione del film di A. Øvredal, con Z. Margaret Colletti, M. Garza, G. Rush, A. Abrams
Secondo Stephen King – indiscussa autorità in materia – la storia più spaventosa mai raccontata è “La zampa di scimmia”, scritta dall’inglese W. W. Jacobs nel 1902. “Monkey’s Paw” era il titolo originale, anche della prima versione cinematografica muta, nel 1923 (ecco perché la casa di produzione fondata dal regista horror Jordan Peele si chiama “Monkeypaw”). Tre desideri, formulati così male che quando vengono esauditi procurano sofferenze e morte (ma il momento peggiore sta a metà, come insegna “Pet Sematary”). All’origine di “Scary Stories to Tell in the Dark” c’è un libro per ragazzi anni 80, scritto da Alvin Schwartz (edizione italiana De Agostini) e illustrato da Stephen Gammell. Puro terrore con intervalli macabri, sostengono gli adulti poco inclini al genere: qualche biblioteca americana lo ha cacciato dai suoi scaffali. Non succederà a questo film, prodotto da Guillermo del Toro e quindi pregiudizialmente applaudito dai fan. La morale della favola – “Le storie feriscono, le storie curano” – viene ripetuta così tante volte da rassicurare anche il genitore o insegnante più pavido. Siamo a Mill Valley, Pennsylvania, l’anno è il 1968. Qualche giovanotto sta partendo per il Vietnam. Una ragazza occhialuta di nome Stella va con gli amici nerd (tenete presente che esserlo allora non era figo come adesso) a vedere “La notte dei morti viventi” di Roger Corman. Per doppio spettacolo, visitano la casa stregata dove un tempo vivevano i Bellows, famiglia di industriali. Scomparsi senza lasciare traccia, a parte il fantasma di una ragazza. Stella, che nella cameretta ha una macchina per scrivere e un racconto a metà, ruba il libro delle storie e lo porta a casa. Scopre con orrore che le pagine sono scritte con inchiostro rosso sangue – non ancora ben asciutto, macchia le dita – e il titolo dell’ultima storia è il nome di un bullo della scuola, che farà una fine orrenda. Non è spoiler, è solo l’inizio. Funziona come una serie, un episodio goticheggiante dopo l’altro. Un obolo pagato all’ecologia: le fabbriche inquinano e i bimbi muoiono, altro che streghe. Una montagna di cliché, a misura di spettatore ragazzino.