Un po' di film in streaming, da guardare spaparanzati sul divano
Niente Cannes, Hollywood ferma e anche gli Oscar meditano una modifica al regolamento. Un'occasione di pareggiare le opportunità tra chi abita in grandi città e posti dove la sala cinematografica è un vago ricordo
Niente Festival di Cannes, ormai è ufficiale. Se ne riparlerà a fine giugno, forse inizio luglio. Ammesso di trovare un buco nel fitto calendario della città di Cannes, che ha costruito un palazzone con vista sul porto (familiarmente chiamato “bunker”) e sulle manifestazioni vive, oltre che sul turismo e i corsi di francese. Spike Lee – sarebbe stato il primo presidente di giuria nero, per chi tiene i conti – si è messo a disposizione per altre date. Ora è il momento di “pregare, inginocchiarsi, pregare ancora, sperare che si trovi un vaccino, rialzarsi e rimboccarsi la maniche”, dice il regista che a Cannes ha presentato quasi tutti i suoi film. Per chiudere l’intervista uscita su Variety, dalla sua casa di Brooklyn suggerisce di zittire Donald Trump quando parla di “virus cinese”.
Il cinema e lo spettacolo possono sembrare cose futili, mentre l’epidemia tiene chiusi in casa (i fortunati) e la piccola Italia ha un conto di morti che ormai supera la grande Cina. Ma non è solo James Bond che viene rimandato. Ora che Los Angeles e la California hanno chiuso per il virus, Deadline calcola che 120 mila persone resteranno senza lavoro. L’industria non è fatta solo di registi e divi di cui conosciamo nomi, corna e pettegolezzi. Dietro ci sono tecnici, laboratori, elettricisti, falegnami, costumisti, truccatori, catering, addetti alla pubblicità, proprietari di sale cinematografiche, fabbricanti di popcorn.
Vale anche per l’Italia, fatte le debite proporzioni, e infatti erano già state avanzate richieste al Consiglio dei ministri. Si osa perfino parlare di streaming, che qualche regista ancora considera una parolaccia. Sarebbe invece l’occasione per far circolare i titoli che non possono uscire nelle sale. Sappiano quei registi che la sala buia affascina solo gli spettatori maturi, e avere i film a portata di clic piacerà pure a loro (qui sotto, un po’ di titoli da guardare spaparanzati sul divano, per una volta pareggiando le opportunità tra chi abita in grandi città e posti dove la sala cinematografica è un vago ricordo).
Gli Oscar meditano una modifica al regolamento. Ma come, non ha appena vinto “Parasite”? Sono così fosche le previsioni da estendersi al prossimo febbraio? Dicono le regole che i film candidati nelle varie categorie devono uscire in sala, e visto che le sale sono chiuse (potrebbero invece riaprire in Cina) bisogna cambiare i criteri d’ammissione. Tra le produzioni interrotte, i costosissimi seguiti di “Avatar” – fino al cinque, programmato nel 2027 – che James Cameron stava girando in Nuova Zelanda. L’altrettanto costoso “Batman” di Matt Reeves, con l’ex vampiro Robert Pattinson (uscita prevista l’anno prossimo). E “La sirenetta” in live action, ennesima prova – se ce ne fosse bisogno – che le generazioni a venire non hanno abbastanza fantasia per apprezzare i disegni animati.
THE DEPARTED
di Martin Scorsese, con Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Vera Farmiga (Netflix)
“Patriot Act! Patriot Act! I Love the Patriot Act!” La battuta è di Alec Baldwin, capitano di polizia che finalmente riesce a intercettare le telefonate del mafioso irlandese Frank Costello. Gli sta dando la caccia da anni, mettendogli alle costole un poliziotto infiltrato che per rendersi credibile ha trascorso mesi in carcere. La talpa è Leonardo DiCaprio. Il boss è Jack Nicholson, innamorato pazzo dei tessuti leopardati: li ha addosso sotto forma di cravatta, ciabatte, vestaglia, spaparanzato su cuscini e divani. Martin Scorsese annata 2008 le aveva azzeccate tutte (impietoso il confronto con l’estenuante – per il regista e per lo spettatore – “The Irishman”). Colonna sonora con Van Morrison & The Band, Rolling Stones, Beach Boys, Patsy Cline. Ottima trama, presa pari pari da “Infernal Affairs” di Andrew Law e Alan Mak, made in Hong Kong. Brillante sceneggiatura di William Monahan (premiato con l’Oscar, poi scriverà “Sin City-Una donna per cui uccidere”, diretto da Robert Rodriguez e Frank Miller). L’unico film di mafia con un personaggio femminile diverso dalla vedova in gramaglie o dalla madre che chiede vendetta per i figli. Vera Farmiga fa la psicoanalista, per conto della polizia. Da qui la prima imperdibile battuta sugli irlandesi, privi d’inconscio e quindi refrattari alla psicoanalisi. Straordinario film d’azione, con dialoghi da tragicommedia, dura due ore e mezza e si godono tutte. “The Departed” sono i cari estinti, si spera accolti in paradiso. Mark Wahlberg sputa insulti a raffica, con la pistola sotto l’ascella. Matt Damon ha la giusta faccia d’angelo. La ricetta che fa crescere bene i funghi vale anche per addestrare i poliziotti: “nutrili a merda e tienili al buio”.
LADY BIRD
di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Lucas Hedges, Tracy Letts, Beanie Feldstein (Amazon)
Sacramento, California somiglia a Bellinzona, Canton Ticino (“Canton Vicino” nell’immaginario di Paolo Nori e altri che sconfinavano per la cioccolata e i dadi, quando si poteva). Mette una gran voglia di andar via, sperimentare la vita in città, sfinirsi con cinema e teatro in dosi massicce (quando si poteva). Non (per personale esperienza) al punto di buttarsi giù da una macchina, durante un diverbio con la mamma che vorrebbe un’università vicina. Christine – che preferisce farsi chiamare Lady Bird, come “coccinella” – sogna New York: apre la portiera, nella scena dopo ha un braccio nel gesso rosa, e scatta l’applauso. Lady Bird va a scuola dalle suore, senza distinguersi. Ama i genitori ma si vergogna del padre senza lavoro. Quanto alla madre, mai genitrice ha avuto l’apprezzamento della figlia adolescente. Frequenta un corso di teatro, si fa accompagnare al ballo della scuola dal ragazzino sbagliato, poi si incapriccia di uno ancora più sbagliato: Timothée Chalamet, il più bel faccino apparso sullo schermo dopo Leonardo DiCaprio all’epoca di “Titanic”. Anche di mondo, quando gli va. Dopo essersi scopato una pesca matura in “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino, e dopo aver firmato un frutto per una fan, al Jimmy Kimmel show ha detto “spero che tra cinquant’anni non sarò ancora qui a firmare pesche”. Quando non gli va, assieme alla regista Greta Gerwig si pente per aver lavorato con Woody Allen e devolve i soldi in beneficenza. Romanzi di formazione per ragazze ce n’è pochi, quasi nessuno. Ma se non sapessimo che alla fine dei tormenti esce fuori la regista nonché idolo del cinema indipendente Greta Gerwig – bravissima in “Frances Ha”, e in “Mistress America”, scritti con Noah Baumbach – forse “Lady Bird” non avrebbe sfiorato il cento per cento di recensioni positive su Rotten Tomatoes. La prova generale per “Piccole donne”, con Saoirse Ronan nella parte di Jo March.
ELIZABETHTOWN
di Cameron Crowe, con Orlando Bloom, Kirsten Dunst, Susan Sarandon (Netlix)
Cameron Crowe entrò a Rolling Stone come ragazzo prodigio e ne uscì condirettore, sappiamo tutto dal suo film “Almost Famous”. Fece una lunga intervista al suo idolo Billy Wilder, riportata e illustrata in “Conversazione con Billy Wilder” (lussuosa edizione Adelphi, inutile sperare in un ebook, e le consegne non sono tempestive, di questi tempi). In “Elizabethtown” sfoggia la sua collezione di CD (che gli inguaribili fan già conoscono a memoria, mentre i non fan sono disinteressati: di gente che ti vuol mostrare la sua compilation è pieno il mondo). L’altra scena da sforbiciare era il tip tap di Susan Sarandon al memorial service del marito. Tra tanto fare e disfare (dopo la presentazione alla Mostra di Venezia il regista è tornato in sala di montaggio) il film ha parecchie cose notevoli. Una scena iniziale strepitosa che spiega la differenza tra “insuccesso” e “fiasco”: Orlando Bloom disegna una scarpa sportiva così mostruosa che “spingerà le generazioni future a camminare scalze”. La più lunga e tenera telefonata di corteggiamento vista al cinema: lei si fa le unghie, svuota la valigia, stende il bucato; lui allontana il telefonino quando deve tirare lo sciacquone. Una Kirsten Dunst di mostruosa bravura. Una magica videocassetta che zittisce i bambini pestiferi. Un nostalgico rockettaro con i basettoni nuovamente in servizio.
TROPIC THUNDER
di Ben Stiller, con Ben Stiller, Jack Black, Robert Downey jr, Nick Nolte (Amazon)
Finti trailer presentano le star che – per amore, per forza, per rianimare la carriera in declino, per gusto della sfida – ritroveremo nella giungla, agli ordini di un regista inglese che a Hollywood sta girando “il film definitivo sulla guerra del Vietnam”. Il produttore è fuori di testa (aspettate di vedere l’ultima scena). Un veterano che con due moncherini al posto delle mani ha scritto le sue memorie dorme in tenda mentre le star alloggiano in albergo. Il primo finto trailer presenta Tugg Speedman-Ben Stiller: un Rambo ormai in declino: davanti allo specchio si carica di armi come se si aggiustasse cravatta e gemelli, “quasi quasi prendo anche una granata da infilare nel taschino”. Il secondo, tale Jeff Portnoy (Jack Black) è diventato famoso con una serie intitolata “Fatties Farting” (ciccioni petomani). Il nero Alpa Chino viene dall’hip hop, il nome d’arte lo ha preso dopo aver visto “Scarface”. L’ultimo trailer presenta Kirk Lazarus, australiano con molti Oscar sul caminetto. Intitolato “Satan’s Alley”. Fate conto: “Brokeback Mountain” dentro un convento. I due fraticelli sono Robert Downey jr. e Tobey Maguire, le toccatine furtive al cordone del saio, nei corridoi illuminati da candele, sono già nella nostra personale antologia. Niente di particolarmente elegante, né di politicamente corretto (si poteva ancora fare, nel beato 2008 e speriamo che la versione per lo streaming non sia censurata). Viene detta e ripetuta la parola “ritardato”, l’Actor’s Studio ne esce a pezzi, un attore biondo e con gli occhi azzurri si fa tingere chirurgicamente il volto. “Non vorrei vedere ‘Tropic Thunder’ seduto accanto a Spike Lee” ha detto qualcuno che lo conosce bene. Ben Stiller covava il film da 20 anni. La punizione che tocca al suo personaggio, per un film-scorciatoia verso l’Oscar intitolato “Simple Jack”, è da applauso.
LE AMICHE DELLA SPOSA
di Paul Feig, con Kristen Wiig, Maya Rudolph, Rose Byrne, Melissa McCarthy (Netflix)
Prodotto da Judd Apatow e diretto da Paul Feig – facevano coppia nella mitica serie tv “Freeks and Geeks” – “Le amiche della sposa” ha due donne al comando. Quello vero, leggi “sceneggiatura”: un regista più di tanto non può fare, se nessuno scrive le battute. Sono Annie Mumolo (nel film fa una passeggera isterica) e Kristen Wiig, che nel film è la protagonista. Una biondina che al mattino si trucca di nascosto per far impressionare l’amante della notte prima, mentre lui vuole soltanto cacciarla fuori alla svelta. Il patto dice infatti: “Non dormirai mai a casa mia” (quando a porre le condizioni è Jon Hamm, difficile rifiutare). Grazie a questo film – e ancor prima grazie a certe femmine folli inventate per il “Saturday Night Live” – Kristen Wiig ha raggiunto Tina Fey e Sarah Silverman nel gruppo delle comiche che non devono conciarsi da brutte per strappare la risata. Sa fare tutto, e tutto le riesce bene. La gag malinconica: manda a monte la vendita di un anello di fidanzamento avvisando la futura sposa che l’amore non durerà per sempre. Lo slapstick: cerca di farsi arrestare superando i limiti di velocità, fumando spinelli e gettando rifiuti dall’auto (il poliziotto ha buoni motivi per restare indifferente). Le battute alla Neil Simon, quando la madre consulente agli Alcolisti Anonimi spiffera le storie dei pazienti (ultimo ruolo di Jill Clayburg, la “donna tutta sola” nel film di Paul Mazursky). Le battute idiote, quando la coinquilina per calmare il bruciore del tatuaggio mette i piselli surgelati sulla ferita, DOPO aver aperto la busta. Le battute oscene: “ho figli adolescenti, in casa c’è odore di sperma ovunque, le coperte sono rigide da spezzarsi”. La festa francese – regalo per gli ospiti: cagnolini con il basco rosa – è uno spasso. Già, perché c’è un matrimonio da organizzare, e la guerra tra la damigella d’onore Annie e le damigelle semplici – più ricche e intonate – infuria.
MOTHERLESS BROOKLYN - I SEGRETI DI UNA CITTÀ
di Edward Norton, con Edward Norton, Bruce Willis (a noleggio su Chili)
“Ho la Tourette. La mia bocca non si ferma mai, anche se perlopiù bisbiglio o mi mangio le parole. Ribollono nella cornucopia del mio cervello e si rovesciano sulla superficie del mondo, pizzicando la realtà come dita su tasti di pianoforte. Accarezzando, stuzzicando. Dando leggere manate sul sedere delle vecchie signore per strappare loro una risatina”. Nella magnifica traduzione di Laura Grimaldi (appena ristampata da Bompiani) così inizia il romanzo di Jonathan Lethem. Un regista e un attore vogliosi di rifarlo al cinema rischiano di schiantarsi alla prima curva. Edward Norton c’è riuscito, retrodatando la storia agli anni 50. Dirigendo e recitando – senza andare mai sopra le righe. L’Oscar come migliore attore lo ha vinto Joaquin Phoenix per “Joker” di Todd Phillips (altro film in streaming su Chili) ma anche Edward Norton l’avrebbe meritato. La risata isterica del clown, nei momenti sbagliati e come reazione all’imbarazzo, somiglia molto alle parole in libertà scagliate dal detective Lionel, cresciuto in orfanotrofio.
Effetto nostalgia