Honey Boy
Di Alma Har’el, con Shia LaBeouf, Lucas Hedges, Noah Jupe, Byron Bowers (su Chili)
Bingo. Nella stessa settimana, e con il cinema che sta girando al minimo, due film che raccontano l’infanzia senza lagne né retorica sono un vero miracolo. In “Magari” di Ginevra Elkann l’autobiografia è sospettata (sappiamo benissimo che l’io narrante non è proprio l’io di chi scrive e gira, ma a volte si somigliano parecchio). In “Honey Boy” l’autobiografia è dichiarata, e Shia LaBeouf è tanto sfacciato da scegliere per sé la parte di suo padre (odiatissimo, questo già lo sapevamo). Va aggiunto che l’attore non si è distinto negli ultimi tempi per i suoi comportamenti educati. Fece il red carpet a Berlino con un sacchetto di carta in testa, per esempio, e le sue furie sono leggendarie. Nella confusione – capite bene che siamo sull’orlo del disastro, pure un passetto più avanti, tipo spuntone di roccia che sta per franare – Shia La Beouf fa una mossa geniale, assume una regista, l’israeliana Alma Har’el. L’attore è antipatico, e stava antipatico pure a noi. I film ordinati dal terapeuta come mezzo per disintossicarsi (da un sacco di roba: mettiamo agli estremi il padre che faceva il clown di rodeo, e non era mai soddisfatto del figlio, e ogni sorta di droga) sono quasi sempre odiosi e narcisi. Abbiamo somma sfiducia negli attori che diventano registi e e negli ex bambini prodigio che raccontano un’infanzia di tormenti. A dispetto di tutto, “Honey Boy” è riuscito dannatamente bene. Speriamo che Shia LaBoeuf, per completare la cura, la smetta con i “Transformers”. (La gran domanda generale è: ci libererà il virus da questi carrozzoni che abbisognano di un pubblico da stadio? Oppure – aiuto! – rimarranno fondamentali per fare girare l’industria?)