Senza lasciare traccia

La recensione del film di Debra Granik, con Ben Foster, Thomasin McKenzie, Isaiah Stone, Diana Millican (Netflix)

Mariarosa Mancuso

Trama ben costruita, originale, senza esibizionismi. Recitata da due attori meravigliosi e pressoché sconosciuti. Quando la regista portò il suo film a Cannes, nel 2018, la giovane e bravissima neozelandese Thomasin McKenzie fu una scoperta. L’abbiamo rivista in “Jo Jo Rabbit” di Taika Waititi: sempre bravissima, è la ragazza ebrea nascosta in soffitta. Più esperto l’americano Ben Foster, nella categoria degli attori che non riconosciamo da un ruolo all’altro. “Senza lasciare traccia” racconta una tredicenne che vive in un parco attorno a Portland con il padre, reduce dal Vietnam.

  

Dormono in tenda, cucinano sul fornelletto quel che trovano o cacciano, risparmiano i fiammiferi, stanno attenti a non rivelare la loro esistenza. Senza proclami ecologici, né menate sulla decrescita felice: papà è piuttosto orso, la figlia accetta la situazione. Anche lei si destreggia con le tecniche di sopravvivenza, e al resto dell’educazione – scacchi compresi – provvede il genitore. Succede un incidente, dalle conseguenze gravi (c’entrano i forestali e poi gli assistenti sociali, la ragazza dovrebbe frequentare una scuola, il padre dovrebbe avere un lavoro).

  

Anche esilaranti. Per esempio, il questionario sottoposto al padre e alla figlia, onde calcolare quanto sono asociali (nessuno di noi supererebbe la prova). La ragazza non soffre quanto il padre, potrebbe anche restare e stringere amicizia con qualche altro spostato (che vi sembra di un coniglio chiamato “tronçonneuse”, la motosega di ‘Non aprite quella porta’?”). Lui trova un lavoro nella foresta (piccola lezione sul ritocco degli abeti natalizi). Debra Granik è la regista di “Un gelido inverno” il film che lanciò Jennifer Lawrence. Catturava e scuoiava uno scoiattolo per la cena dei fratellini affamati, serve molta bravura per raccontare il white trash senza pietismi.

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