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Quel nazionalismo energetico che impedisce al sudamerica di crescere

Nicolò Sartori

Le profonde criticità del Venezuela sono davanti agli occhi di tutti: il più grande Paese al mondo per riserve petrolifere potrebbe dover progressivamente fare i conti con una débâcle molto grave

Anticipiamo l’articolo di Nicolò Sartori che uscirà sul numero di Oil Magazine, in edicola abbinato con il Foglio da martedì 20 giugno. Sartori è Senior Fellow e responsabile del Programma Energia dello IAI, Istituto affari internazionali.

 


  

Durante il secondo mandato della Presidenza Obama l’America Latina è finita sotto i riflettori come elemento portante di un “emisfero occidentale” integrato e autosufficiente in materia energetica. Grazie soprattutto alle immense riserve petrolifere del Venezuela, al potenziale dei giacimenti pre-salt nell’offshore brasiliano e alle prospettive non convenzionali in Argentina, l’America Latina avrebbe dovuto contribuire in modo decisivo all’emancipazione energetica del continente americano, trainato dalla rivoluzione shale in atto negli Stati Uniti e dallo sfruttamento delle sabbie bituminose canadesi. Nonostante queste prospettive, il decollo della regione rimane frustrato dalla grande incertezza politica ed economica in alcuni Paesi chiave e dalle tendenze nazionaliste dei principali attori sudamericani, cronicamente restii verso forme di cooperazione energetica.

 

Le profonde criticità del Venezuela sono davanti agli occhi di tutti: il più grande Paese al mondo per riserve petrolifere potrebbe dover progressivamente fare i conti con una débâcle molto grave. La produzione giornaliera di poco più di 2 milioni di barili al giorno – in costante declino dal 2014 – non solo non basta a evitare il terzo anno consecutivo di recessione, ma addirittura non garantisce gli approvvigionamenti interni di prodotti petroliferi. In questa situazione, il rischio di una paralisi del settore petrolifero venezuelano non soltanto rappresenta un elemento di grande incertezza per i mercati globali, ma ostacola anche qualsiasi tentativo di integrazione energetica a livello regionale. Seppur in termini decisamente meno drammatici, anche in Brasile lo scenario politico ed economico non è dei più rassicuranti. Nonostante le problematiche che, in parte, hanno caratterizzato anche il settore petrolifero, negli ultimi mesi la produzione di greggio e gas naturale brasiliana ha fatto registrare importanti progressi (3.36 milioni di barili di petrolio equivalente alla fine del 2016, +11 percento rispetto all’anno precedente). Tuttavia, a causa delle difficoltà finanziarie del settore, aggravate dal crollo dei prezzi del greggio, lo sviluppo delle risorse pre-salt brasiliano non è andato secondo le iniziali (rosee) aspettative della IEA, posticipando la consacrazione del paese e limitandone il ruolo propulsivo a livello regionale. Prospettive diverse, invece, per il Messico. Destinato a sprofondare verso un destino di anonimato energetico (alla luce della contrazione della produzione del 32 percento rispetto al picco del 2004), il paese centroamericano sembra invece aver trovato le contromisure per risalire la china. Grazie all’entusiasmo generato dalla rivoluzione shale oltreconfine, e a politiche attive di attrazione degli investimenti internazionali (in primis il superamento del monopolio ultradecennale di Pemex), il Messico ha ripreso a marciare. Niente a che vedere con i fasti di inizio ’900, ma certamente un esempio positivo per una regione ricca di risorse, ma ancora in cerca di un modello per sfruttarle adeguatamente.

 

Accanto a Venezuela, Brasile e Messico – che con un totale di 9 milioni di barili al giorno contribuiscono alla maggior parte della produzione sudamericana – un gruppo di Paesi sta tentando di sviluppare un proprio profilo energetico e di emergere nello scenario regionale e globale. Peru e Trinidad & Tobago sono attivi nel settore del gas naturale, che da qualche anno esportano sotto forma di LNG verso i mercati europeo ed asiatico, mentre Ecuador e Colombia operano principalmente sul mercato petrolifero. Il primo è un tradizionale esportatore e membro – seppur di seconda fascia – dell’OPEC, mentre la seconda, negli ultimi anni, ha sperimentato un sostanziale incremento della produzione, sostenuto da normative più favorevoli alle attività di esplorazione. Capitolo a parte merita l’Argentina: tradizionale produttore ed esportatore di idrocarburi, nonostante il grande potenziale di risorse shale e le prime attività estrattive avviate nel bacino di Nequen, nel 2015, il paese sudamericano è diventato importatore netto di gas naturale. Nonostante il potenziale a disposizione e alcune importanti complementarità tra gli attori regionali, l’America Latina rimane un’incompiuta a livello energetico. Basti pensare che ancora 22 milioni di cittadini non hanno accesso all’elettricità, con un tasso di elettrificazione dell’85 per cento nelle aree rurali del continente, o che nonostante le abbondanti riserve di greggio, negli ultimi anni le importazioni di prodotti dagli Stati Uniti sono raddoppiate (per un costo di circa 50 miliardi di dollari annui) a causa di un settore della raffinazione completamente inadeguato.

 

Chiaramente, la tendenza al nazionalismo energetico ancora ampiamente diffuso a livello regionale, continua ad alimentare questa situazione. Infatti, sebbene il crollo dei prezzi del greggio abbia contribuito – come nel caso messicano – a smuovere le acque, troppi governi rimangono ancora barricati sulle loro posizioni protezioniste. D’altro canto, l’adozione di politiche eccessivamente liberiste da parte dei governi nazionali, rischia di esporre il settore energetico latinoamericano alla crescente volatilità dei mercati internazionali. Un equilibrio tra queste due posizioni estreme può essere raggiunto attraverso una maggiore convergenza e integrazione energetica regionale, che permetta di superare la frammentazione e sfruttare a pieno le complementarità tra i diversi attori dello scacchiere latinoamericano. Un processo di integrazione – fisica, normativa e regolatoria – che da un lato potrebbe garantire maggiori livelli di sicurezza energetica (soprattutto nel settore del gas) e un accesso all’energia più competitivo e sostenibile, e dall’altro assicurare maggiori ritorni economici per lo sfruttamento delle risorse locali. Si tratta però di scelte strategiche che garantiscono ritorni positivi soltanto nel medio-lungo periodo, tempistiche che purtroppo alcuni leader populisti dell’America Latina sembrano non avere la possibilità (e la volontà) di considerare.

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