Pope bless America
L'altro esperimento gesuita in America
New York. Fra una decina di giorni un gesuita biancovestito venuto dalla fine del mondo sbarcherà per la prima volta nella sua vita negli Stati Uniti, tirato per la sottana da chi vuole farne un eroe onusiano della lotta al climate change o di quella alle disegaglianze economiche, un idolo clericale del pensiero debole su vita e famiglia o un distributore di misericordia a gettoni, perché le carte di credito sanno troppo di economia trickle-down. Francesco si troverà di fronte allo spirito del cattolicesimo a tinte civili di John Courtney Murray, il gesuita americano che considerava la postmodernità un dono della provvidenza. Magari con la minuscola, ma sempre meglio che niente. La condizione dei postmoderni era provvidenziale perché offriva una scelta inequivocabile fra due alternative opposte: da una parte la “rivoluzione cristiana permanente con tutte le sue speranze di libertà e giustizia”, dall’altra la “controrivoluzione reazionaria” del razionalismo. “L’uomo può o aderire a una nuova ‘età dell’ordine’, guidata dalla legge morale, oppure può tornare a quello che il teologo Romano Guardini descrive come la ‘infedeltà intrinseca dei tempi moderni’, un’infedeltà non verso lo stato, verso un ideale o verso la fede, ma un ‘tradimento della struttura stessa della realtà’. In questo caso, il futuro apparterrà a una nuova incarnazione dell’uomo ‘senza senso, senza fede, senza cuore, senza scrupoli’ che san Paolo incontra per le strade della non cristiana Corinto”. Lo ha scritto Douglas Auchincloss nel 1960, due anni prima dell’inizio del Concilio, sul settimanale Time, che metteva in copertina il gesuita più importante d’America, personaggio talmente rilevante che l’estensore dell’articolo preconizzava: “Gli americani seri di ogni ceto e condizione, in divisa o in camice da laboratorio, tuta spaziale o grembiule, discuteranno delle speranze e delle paure di Murray per la democrazia americana”.
L’occasione della celebrazione del Time, privilegio riservato ai pezzi forti dell’establishment, era la pubblicazione della raccolta di saggi “We Hold These Truths”, compendio del pensiero di Murray, e quella di Auchincloss non era un’iperbole: l’America non si era proprio fermata per discutere delle tesi di un prete di Manhattan nel tinello o al bar, ma quello che quel prete diceva era ed è l’oggetto di una grande discussione americana, largamente inconscia, interiorizzata per osmosi e seminata per gemmazione, sull’intima compatibilità fra il cristianesimo e il progetto americano. Il destino dell’America è un destino cristiano? Locke può rappacificarsi con Aristotele? Thomas Jefferson riconciliarsi con san Tommaso? L’individualismo può accordarsi con la natura creaturale? Il progetto moderno può recuperare le radici cristiane dalle quali si è discostato? E’ possibile pensare a una modernità che non finisce con preti e suore sulla graticola, giustiziati in nome della dea ragione? Nella prospettiva di Murray tutto questo non solo è possibile, ma è un destino, e si può dire che il gesuita cresciuto sulla diciannovesima strada non abbia fatto altro che tentare di dimostrare che l’identità cattolica e quella americana sono sorelle. L’America è davvero la city upon a hill, la terra promessa dove ricostituire l’alleanza spezzata non come volevano i Padri pellegrini, che volevano fare il regno di Dio hic et nunc, ma dentro lo schema del liberalismo delineato nella Costituzione, che ridefinisce in modo inedito la virtuosa separazione fra stato e chiesa.
Murray ha avuto la sua buona dose di rogne con il Vaticano e con i suoi superiori gesuiti, bilanciate dalla grande vittoria al Concilio, dove ha contribuito all’affermazione della Dignitatis humanae, ma il suo pensiero è penetrato profondamente nel sentire dei cattolici americani. Il fenomeno non riguarda soltanto i progressisti del genere America, nel senso della rivista dei gesuiti (anche loro hanno avuto le loro rogne con Roma), sempre in sospetto di propagandare l’assimilazione al mondo: “Liberale o conservatore, il cattolicesimo postconciliare in America è essenzialmente murrayano”, ha scritto Michael Hanby, professore all’istituto John Paul II di Washington. Anche un George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II e caposcuola dei conservatori, esibisce tutto il debito verso l’influente gesuita quando afferma che “non c’è contraddizione fra le pretese di verità del cattolicesimo e l’esperimento democratico americano”.
Senza considerare le tesi di Murray sul pluralismo religioso è impossibile capire la sensibilità dominante nel cattolicesimo americano, che fa leva innanzitutto non sul decalogo o sul discorso della montagna ma sul Primo emendamento, “un lavoro fatto da avvocati, non da teologi” e proprio per questo privo di pretese veritative. Un campo perfettamente neutro dove il cattolicesimo poteva fiorire. L’America si poggia su quella che Murray chiamava la “filosofia pubblica”, cioè “il consenso costituzionale attraverso cui il popolo acquisisce la sua identità e la società prende la sua forma vitale, il suo senso di uno scopo come collettività organizzata per l’azione nella storia”. E’ questo “insieme di affermazioni elementari” la fonte dell’ordine americano, la sorgente segreta dell’identità, che determina il ritmo del vivere civile e influenza l’agire politico. L’Europa continentale cristiana, costruita su fondamenta medievali, si era risolta in una rissa violenta con la modernità che voleva ridurre la chiesa all’irrilevanza pubblica, mentre la più accomodante versione anglosassone del liberalismo lasciava al cattolicesimo spazio di manovra. Al contrario della laïcité autoritaria, la laicità buona dell’America era un humus fertile per la cristianità. E’ pur sempre la nazione in cui gli immigrati italiani e irlandesi si sono arruolati in massa nella polizia per dimostrare la loro fedeltà allo stato, dove dietro all’altare di ogni chiesa cattolica campeggia la bandiera a stelle e strisce. Per generazioni di cattolici americani, la crescita numerica dei fedeli nel nuovo mondo – mentre in Europa il consenso cattolico colava a picco – è stata la prova che Murray ci aveva visto giusto.
Le riforme “unamerican”
Il matrimonio americano fra la città di Dio e quella dell’uomo celebrato da Murray è radicatissimo nei cuori e nelle menti, ma assalito dalla realtà. La sentenza della Corte suprema sul matrimonio gay, l’attacco alle istituzioni cristiane per tramite dell’Obamacare, la condanna – corredata dal carcere – di Kim Davis per aver sfidato l’ordine civile in nome della coscienza, l’identificazione della libertà religiosa con la mera libertà di culto sono crepe nella “rivoluzione cristiana permanente” di Murray, ritagliata sullo sfondo di garanzie costituzionali che si stanno ritorcendo contro l’ordine cristiano.
[**Video_box_2**]Alcuni sostengono, murrayanamente, che tutto questo non è che “il tradimento della struttura stessa della realtà” (Guardini), una svolta innaturale della postmodernità americana che finisce per rinnegare non solo Tommaso ma anche Locke e i Padri fondatori. Altri fanno notare che forse il liberalismo averitativo e compatibile con il cristianesimo forse così neutro e privo di contenuti proprio non era. I vescovi americani da tempo combattono in campo aperto e con voce inequivocabile le presenti derive sociali, ricordando spesso che certi fenomeni non sono solo contrari alla dottrina cattolica, ma anche allo spirito americano sigillato nella Costituzione. “Unamerican” è parola che il cardinale di New York, Timothy Dolan, ha ripetuto spesso negli anni per descrivere gli attacchi dello stato. L’articolazione del rapporto fra chiesa e mondo è una costante, forse la costante, del pontificato di Francesco, e nell’inedito viaggio affronta il luogo in occidente in cui con più convinzione si è tentato il matrimonio fra cristianesimo e secolarizzazione, celebrato nella sua versione postconciliare da Murray. Nel suo viaggio, il gesuita più influente del mondo non potrà non tenere conto del gesuita più influente d’America.
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