Papa Francesco (foto LaPresse)

La croce non è un vessillo

Matteo Matzuzzi
Leadership, coesione e metodo. Il fraterno scappellotto di Francesco ai vescovi degli Stati Uniti delinea una conversione delle strategie d’azione pastorale della chiesa americana.

Washington, dal nostro inviato. Accolto dalle note del “Tu es Petrus” di Palestrina – fatto ormai abbastanza raro anche in san Pietro –, il Papa ha parlato per oltre mezz’ora, in italiano e non in spagnolo come precedentemente annunciato, ai vescovi degli Stati Uniti riuniti nella cattedrale di San Matteo. “La mia voce si pone in continuità con quanto i miei predecessori vi hanno donato”, premette, chiarendo fin da subito che  non è lì per “tracciare un programma o delineare una strategia”: “Non sono venuto per giudicarvi o per impartirvi lezioni. Preferisco piuttosto ritornare ancora su quella fatica – antica e sempre nuova – di domandarsi circa le strade da percorrere, sui sentimenti da conservare mentre si opera, sullo spirito con cui agire”. Fa capire subito che conosce quella variegata e complessa realtà, cita passi dall’Antologia di Spoon River e afferma che “non mi è estranea la storia della fatica di impiantare la chiesa” in “un territorio spesso inospitale, dove le frontiere sono sempre provvisorie, le risposte ovvie non durano e la chiave d’ingresso richiede di saper coniugare lo sforzo epico dei pionieri esploratori con la prosaica saggezza e resistenza dei sedentari che presidiano lo spazio raggiunto”.

 

Ma la portata del discorso, letto “senza la pretesa di essere esaustivo”, delinea una conversione delle strategie d’azione pastorale della chiesa americana. Il Pontefice chiede ai vescovi “di questa terra così prodiga di prosperità” di convertirsi all’umiltà e alla mitezza: “Imparare da Gesù; meglio ancora, imparare Gesù”. Francesco inizia il suo intervento lodando quel che è stato fatto fino a oggi, dalla “generosità e solidarietà verso la Sede Apostolica” all’evangelizzazione “in tante sofferte parti del mondo”, dall’“indomito impegno della vostra chiesa per la causa della vita e della famiglia” allo “sforzo ingente di accoglienza e di integrazione degli immigrati” (capitolo su cui sarebbe tornato più ampiamente in conclusione d’interento, chiedendo di “accoglierli senza paura”); dal “lavoro con cui portate avanti la missione educativa nelle vostre scuole a tutti i livelli” alla “opera caritativa nelle vostre numerose istituzioni”. La richiesta fatta ai vescovi, però, è di compiere un passo ulteriore, di non fermarsi a una pastorale manageriale che badi solo a registri contabili e investimenti obbligazionari e tralasci la cura delle anime. I cardinali americani, nelle fasi del pre Conclave del 2013, dicevano apertis verbis che sul Soglio di Pietro serviva un bravo manager, un capace amministratore che mettesse le cose a posto, a partire dai conti.

 

[**Video_box_2**]Oggi, Francesco, dice a quegli stessi porporati, e alle centinaia di presuli convenuti a Washington, che “senz’altro è utile al vescovo possedere la lungimiranza del leader e la scaltrezza dell’amministratore, ma decadiamo inesorabilmente quando scambiamo la potenza della forza con la forza dell’impotenza”. E anche quando si tratta di lottare, di scendere in piazza per la conquista di un posto nello spazio pubblico, è necessario sì avere “la lucida percezione della battaglia tra la luce e le tenebre che si combatte in questo mondo”, ma tenendo sempre presente un monito perentorio: “Guai a noi, però, se facciamo della croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere svuotare di se stessi”. Il Papa sa bene la portata delle sfide poste davanti alla chiesa cattolica americana – a partire dalla difesa della libertà religiosa – è consapevole “che è spesso ostile il campo nel quale seminate”. Il problema è che “non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze”. Il messaggio suona chiaro per buona parte della chiesa locale: il rischio è quello di erigere muri sempre più alti, difendere il proprio piccolo e sempre più asfittico orto con la motivazione che tutto ciò che è oltre lo steccato è in qualche modo contaminato dal peccato e quindi da evitare. E’ anche per questo che Francesco chiede a più riprese il dialogo, che “è il nostro metodo”, e non per “astuta strategia”. Basta con lo sbraitare fine a se stesso, insomma, visto che “il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente”. Chiede di lasciar perdere “la predicazione di complesse dottrine” e sottolinea che “l’essenza della nostra identità va cercata nell’assiduo pregare, nel predicare e nel pascere”. Per quanti, tra i presenti, non avessero colto il messaggio, ci avrebbe pensato il Papa, poco dopo, a ribadire il concetto: “Non pascere se stessi ma saper arretrare, abbassarsi, decentrarsi. Non guardare verso il basso della propria autoreferenzialità”, “sfuggire alla tentazione del narcisismo”. Bergoglio è consapevole di trovarsi dinanzi a un uditorio che a fatica ha mostrato di orientarsi lungo la rotta da lui tracciata una volta eletto vescovo di Roma, ed è per questo che avverte che la “chiesa non può lasciarsi dividere, frazionare o contendere. La nostra missione episcopale è primariamente cementare l’unità”. Francesco invita i vescovi “ad affrontare le sfide del nostro tempo”, e per sfide intende “le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura”. Questi, ha detto il Pontefice, “sono aspetti irrinunciabili della missione della chiesa” e “abbiamo il dovere di custodirli e comunicarli, anche quando la mentalità del tempo si rende impermeabile e ostile a tale messaggio”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.