Papa Francesco e il modello di integrazione americano in crisi
New York. Nei lunghi briefing organizzati per la stampa, prima a Washington e ora a New York, uno dei temi che con più ricorrenza torna nelle parole degli oratori e dei giornalisti è quello dell’immigrazione. Se ne parla molto di più rispetto al cambiamento climatico e alla libertà religiosa, questioni che pure sono state dibattute dopo i discorsi papali in terra americana. I vescovi locali, capitanati da mons. Joseph E. Kurtz, sono nella quasi totalità uniti nel chiedere l’apertura delle porte, senza far troppe differenze tra migranti “semplici” e rifugiati. Una posizione non troppo dissimile da quella della maggioranza dei presuli europei, dove però le differenze appaiono più marcate (si consideri il caso della Conferenza episcopale ungherese, divisa al suo interno). Francis J. Beckwith, professore di Filosofia e Rapporti stato-chiesa alla Baylor University, in Texas, considera “corretta” l’impostazione data dai vescovi americani, “soprattutto quando si ha a che fare con situazioni urgenti”.
Tuttavia, dice al Foglio, “come per ogni atto di carità, anche l’accoglienza deve essere unita a considerazioni riguardanti il bene comune, il che significa che le autorità governative devono preoccuparsi della sicurezza pubblica e della salute, ma anche della stabilità economica e culturale”. Beckwith, convertito al cattolicesimo nel 2007, scelta cui fece seguire le dimissioni da ogni incarico nella Società teologica evangelica, ricorda l’esperienza dei suoi bisnonni emigrati dall’Italia, da Napoli e dalla Sicilia, all’inizio del Ventesimo secolo: “Come immigrati, erano simili a quanti oggi arrivano qui dal Messico, nella misura in cui stavano cercando una vita migliore per le loro famiglie. Ma ciò che è cambiato da allora sono gli Stati Uniti. I suoi leader non pretendono più che gli immigrati siano assimilati alla cultura americana pur mantenendo il rispettivo retaggio culturale e le proprie tradizioni. Così, in modo ironico, la leadership americana pensa meno ai migranti rispetto a quanto avesse fatto con i miei antenati giunti su queste coste lo scorso secolo”. Non c’è un piano, una visione futura, spiega l’interlocutore. Tutto è ridotto a mere beghe politiche: “I repubblicani li vedono sì come manodopera a basso costo”, ma anche i democratici non sono certo mossi da spirito cristiano nel voler aprire le frontiere e abbattere i muri a sud dell’Arizona: “I democratici vedono quegli immigrati come un nuovo blocco elettorale” per vincere più elezioni possibili.
[**Video_box_2**]“Entrambi gli approcci non hanno niente a che fare con la dignità della persona che insegna l’etica cristiana”. Il punto è che “lo storico modello di integrazione americana è in crisi. E non lo è – spiega Beckwith – a causa del numero di migranti che premono al confine meridionale. Semmai, è in crisi perché la leadership, di entrambi i colori politici, non ragiona più pensando al bene comune. Si guarda solo alle vittorie elettorali, ai dollari e ai centesimi. Non c’è più, insomma, quella esaltazione dei valori e della civiltà americana, che erano gli elementi che attirarono anche i miei bisnonni in questo paese. Un amore per il potere e la ricchezza ha rimpiazzato quello per il prossimo e la patria”. In tutto questo, il Papa di immigrazione ha parlato in abbondanza nei suoi interventi, da quello alla Casa Bianca dove s’è definito “figlio di migranti” all’appello ai vescovi – “accoglieteli senza paura”, fino alle parole pronunciate al Congresso. Riuscirà Francesco a cambiare la posizione dell’opinione pubblica americana sulla questione? “Potrà farlo se gli americani riusciranno a comprendere che lui ha parlato con il linguaggio morale della chiesa, più che con quello delle categorie che ingabbiano i progressisti e i conservatori”. Quanto ai migranti, però, “dovrebbero capire che essere accolti qui comporta che loro siano ospiti gentili, rispettando sempre chi li accoglie”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano