Abolire i concorsi?
La balzana idea di lasciare campo libero alla lottizzazione dei posti invece di premiare il merito
Professor Cassese, nei giorni scorsi, è stato proposto di abolire qualsiasi concorso e dare libertà a ogni ateneo di assumere, estesa anche alla Pubblica amministrazione. Lei che ne pensa?
Mi sembra una eccellente idea per fare un bel tuffo nel passato, verso il “political patronage”, la lottizzazione dei posti amministrativi, persino la “vénalité des offices”. Spazio libero, dunque, a partiti “pigliatutto”, sui 3 milioni di posti, quanti sono i dipendenti pubblici. Poi, dovremo fare come quel grande amministratore francese che lamentava che, quando doveva assumere qualche raccomandato, doveva anche assumere qualcuno che sapesse fare il suo mestiere, per cui ogni raccomandazione richiedeva due assunzioni.
Vedo che l’idea non la entusiasma. Ma perché si fanno i concorsi?
In primo luogo, il concorso richiede che vi sia un numero di posti determinato, per i quali occorre scegliere i titolari. Se non c’è un numero limitato e se si tratta di dare solo una idoneità, non c’è in senso tecnico un concorso, nel senso di competizione (“mors tua vita mea”, come si dice). E la scelta deve assicurare che i migliori, quelli più capaci, per conoscenza e per esperienza, accedano agli uffici pubblici. Questa è la prima finalità del concorso. Ce n’è poi una seconda, quella di assicurare pari opportunità a tutti quelli che hanno i requisiti richiesti per il posto. Quindi, bandi pubblici, portati a conoscenza di tutti. Quindi, diffidare dei concorsi banditi a fine luglio, con termini di scadenza delle domande a fine agosto.
Tutto qui?
Non ho finito. Si chiamano concorsi, ma non sono concorsi, i cosiddetti “concorsi riservati” o i “concorsi con posti riservati”. Sono concorsi compiacenti, che riservano agli interni, a quelli che sono già dentro, posti più alti in carriera. Non rispettano il principio di eguaglianza. Escludono quelli stanno fuori, i più giovani. Occorre anche diffidare dei concorsi con liste di idonei. Gli idonei, in un concorso, sono i perdenti. Ma usa fare lunghe liste di idonei, e farle durare anche anni. Da queste liste si attingono cosiddetti vincitori, che sono in realtà persone che erano state “scartate”. Un altro abuso, che non dipende dal concorso, ma dal modo in cui viene gestito. Un abuso che danneggia ancora una volta i più giovani, perché i posti che si rendono disponibili successivamente al concorso vengono occupati dagli “idonei”, così impedendo altri concorsi.
Perché tante voci contrarie ai concorsi, se quel che dice è tanto chiaro e condivisibile?
Perché i concorsi, che vanno assolutamente conservati, vengono gestiti e svolti male. Innanzitutto, per selezionare bene bisogna fare concorsi regolari a scadenza quasi fissa, non a singhiozzo. Se si fanno maxiconcorsi, si sceglie male (come vuole che possa giudicare bene una commissione che si trova davanti migliaia di candidati?) e si commette un’ingiustizia a danno di coloro che hanno i requisiti e potrebbero fare domanda nell’intervallo di tempo (spesso decenni) tra un concorso e l’altro. Poi, i concorsi si basano su prove scritte e orali che misurano per lo più la capacità di memorizzazione, non maturità, capacità di giudizio, esperienza, attitudini. Insomma le prove sono concepite male, di solito precedute da altre prove con domande a risposta breve (cosiddetti “quiz”) solo per sfoltire. Se vuole divertirsi e capire meglio questo punto, legga l’efficace e ironico articolo di Bernardo Giorgio Mattarella su “Il principio del concorso e la sua parodia”, nel numero 4/2017 del Giornale di diritto amministrativo, appena uscito.
La questione dei concorsi si è ripresentata di recente a causa della inchiesta fiorentina riguardante i docenti di Diritto tributario. Molte conversazioni tra professori di Diritto tributario hanno mostrato malcostume, difetto di princìpi etici, o semplicemente grossolanità, con riferimento a “bottini”, “cupole”. Ne è seguita un’inchiesta giudiziaria definita “chiamata alle armi”, con una “retata” mattutina, interdizioni, arresti domiciliari per “commercio di posti”.
Mi lasci fare una premessa. L’epicentro riguarda l’ateneo fiorentino, che nell’ultimo decennio si è collocato al primo o al secondo posto per qualità della ricerca in Italia. E riguarda un sistema universitario, come quello italiano, che sta tra i primi dieci nel mondo per la qualità della ricerca e che esporta tante persone valorose (la “fuga dei cervelli” avrebbe portato fuori d’Italia circa 50 mila persone). Dunque, stiamo parlando di un corpo sano e di eccellenti qualità, nel suo complesso.
Detto, questo, rimangono queste conversazioni almeno imbarazzanti.
Mi colpisce la loro grossolanità. Se configurano fattispecie penali, il giudice dovrà applicare severamente le norme. E ritengo molto riprovevole l’atteggiamento di chi consiglia di non far domanda. Si vìola così il principio che ho sopra illustrato: tutti debbono avere parità di “chances”. Ma vanno tenuti presenti anche altri aspetti. L’inchiesta riguarda, innanzitutto, un giudizio di abilitazione. Quindi, il riconoscimento di idoneità. Senza limiti numerici. Cioè, chi è stato abilitato non ha tolto il posto a qualcun altro, non abilitato, perché non ha avuto un posto. Per avere un posto di docente, occorre, dopo l’abilitazione, un concorso fatto da ciascun ateneo. Dunque, non si tratta di una “concorsopoli”. Tanto più che – per quel che si legge sui giornali – chi è stato “consigliato” di non presentare domanda avrebbe potuto fare domanda egualmente e poi, se non abilitato, impugnare i risultati dell’abilitazione, mostrando che aveva più titoli degli abilitati e comunque titoli sufficienti per essere dichiarato abilitato. Tanto più che – per quel che si legge sui giornali – coloro che concordavano grossolanamente risultati non erano i componenti della commissione di selezione. Rispetto a questa situazione, appare poco consona al principio di proporzionalità la decisione di arrestare 7 professori e di mettere sotto inchiesta e/o interdire 59 altri docenti. Questo dà poi luogo a ulteriori conseguenze.
Quali?
L’iniziativa dell’onnipresente Anac, autorità Anticorruzione, che ha preparato un aggiornamento del Piano anticorruzione 2017 (al momento oggetto di consultazione), in cui trenta pagine sono dedicate all’università. Vi si leggono proposte ispirate a “istanze di vigilanza”, estese alle università non statali, con la proposta di una “cabina di regia politica” della ricerca con “compiti di indirizzo strategico sull’attività di ricerca del sistema Paese”, proposta scritta da qualcuno che non conosce né i princìpi europei, né quelli costituzionali in materia di ricerca. L’Anac, more solito, si erge a garante della moralità collettiva dettando princìpi sulla progettazione della ricerca, sulla valutazione e sul finanziamento dei progetti di ricerca, sulla loro circolazione, sullo svolgimento della ricerca, sull’esito e sulla diffusione dei risultati, sulla valutazione della qualità della ricerca. Insomma, “big brother is watching you”, come nel famoso romanzo orwelliano “1984”. L’Anac sconfina, è colpevole di un altro eccesso di potere, anche per la debolezza del ministero dell’Istruzione, della ricerca e dell’università e della Conferenza dei rettori, che finiscono per preferire di delegare i compiti di moralizzatore e regolatore all’Anac. Tra l’altro, l’inchiesta fiorentina, che appare aver motivato l’accelerata estensione del piano anticorruzione, non sembra riguardare la ricerca.
Ma l’Anac si interessa anche dell’insegnamento.
Sì, come tutti i moralizzatori, detta le regole per tutto: nell’“aggiornamento” vi sono regole sull’accreditamento delle sedi e i corsi di studio, sullo svolgimento della didattica, sul registro delle lezioni, sulla classificazione delle riviste scientifiche, sul comportamento del corpo docente, “per evitare cattive condotte da parte di professori” e “assenze indebite del docente determinanti il venir meno delle lezioni”. Insomma, l’autonomia universitaria non esiste, questi non sono compiti delle università stesse, come è scritto nella Costituzione. E il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca sta a guardare.