Perché sulla questione dei migranti l'Italia rischia di rimanere col cerino in mano se non fa la voce grossa
La geografia e il diritto internazionale potrebbero obbligarci ad un’isolata assunzione di responsabilità
E’ fin troppo ovvio che qualsiasi approccio alla questione delle migrazioni provenienti dal nord Africa debba prendere le mosse dagli obblighi di solidarietà che gravano sull’Italia in ragione della sua storica e sempre convinta adesione ai precetti del diritto internazionale e del sul impegno nella tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Al fine di avere un quadro chiaro ed esaustivo dei margini di manovra e della realizzabilità di alcune proposte politiche da esporre al tavolo della concertazione europea è necessario ricordare almeno tre o quattro questioni che non possono in alcun modo essere eluse ma che, tuttavia, sembrano sparite dal dibattito di questi giorni.
Innanzitutto, tanto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea quanto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali impongono l’assoluto divieto di espulsioni o respingimenti collettivi e da ciò discende l’obbligo per l’Italia di valutare la posizione individuale di ciascun migrante prima di poterlo rimpatriare. La Corte Europa dei diritti dell’uomo, in occasione di alcune pesantissime condanne nei confronti del Nostro Paese, ha stabilito che i migranti in balia del mare, a prescindere da qualsiasi ulteriore circostanza, devono essere in primo luogo salvati e messi al sicuro. Successivamente deve essere vagliata la posizione individuale di ciascuno di loro, al fine di verificare quanti debbano godere di protezione internazionale, dello status di rifugiati e quanti debbano semplicemente essere considerati migranti economici. Non è possibile, pertanto, invertire la rotta dei barconi o ricondurre immediatamente i migranti recuperati dalle navi italiane presso i porti di partenza. Né è pensabile d'impedire l’accesso ai porti italiani per ricoverare i migranti; per il diritto internazionale questa misura si pone fuori dal circuito della legalità e della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
La Corte Europea ha spiegato, invece, come sia necessario essere sicuri che il rimpatrio non esponga il singolo migrante anche al semplice rischio di subire trattamenti inumani e degradanti nel Paese d’origine o persino nel Paese di transito, cosicché è escluso che si possano rimpatriare persone che abbiano abbandonato la Libia, ad esempio, o che da lì debbano nuovamente transitare per fare ritorno in territori all’interno di molti dei quali sono in corso peraltro gravi disordini o guerre civili.
Il Procuratore della Corte penale internazionale ha dichiarato l’8 maggio di quest’anno che la situazione in Libia è quella di una vera e propria guerra civile nella quale i migranti sono esposti ad uccisioni, rapimenti e torture e già tanto basterebbe alla Corte europea per continuare a ritenere vigenti gli obblighi di protezione nei confronti dei migranti che da quelle coste arrivano.
Prima di effettuare qualsiasi respingimento, pertanto, è necessario verificare le condizioni del Paese in cui verranno collocati i migranti e quelle di tutti le Nazioni che gli stessi dovranno attraversare. La rappresentazione del solo rischio che possano essere esposti a gravi vessazioni impedisce di estradarli e costringe l’Italia ad accoglierli prendendosene cura.
All’interno di questo percorso giuridico cui l’Italia si è auto vincolata in nome della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo (unitamente alla maggior parte dei Paesi del mondo occidentale), si colloca anche la questione dei migranti economici, i quali, prima di essere qualificati come tali devono essere salvati dai pericoli del mare, devono esser accolti in strutture adeguate, sottoposti ad un procedimento amministrativo che dia loro il diritto di dimostrare l’eventuale sussistenza della condizione di rifugiati o di richiedenti asilo, sottoposti ad un giudizio che accerti la mancanza dei requisiti per essere respinti o rimpatriati. E’ evidente, pertanto, come il fatto che si possa sospettare che la maggior parte dei migranti siano migranti economici non altera in alcun modo i termini della questione e non affievolisce gli obblighi che gravano sull’Italia: il migrante va salvato dal probabile naufragio ancora prima di sapere se esso sia un migrante economico o un possibile rifugiato, dopodiché va sottoposto a tutte una serie di procedure che obbligano il nostro Paese ad accoglierlo per un tempo non specificamente definito anche la fine di vagliarne la condizione giuridica, fermo restando anche per il migrante economico il divieto di rimpatrio per l’ipotesi di una esposizione a trattamenti o misure degradanti di cui all’articolo 3 della CEDU.
Gli obblighi giuridici poco sopra rappresentati posti a tutela dei diritti umani (e veniamo al punto centrale ed alla condanna inflittaci dalla geografia) gravano unilateralmente in capo ad ogni singolo Stato che abbia aderito alle carte internazionali, a prescindere dall’attivazione di meccanismi di solidarietà che i Paesi della Comunità europea, ad esempio, possano o vogliano intraprendere.
L’adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e a tutte le altre Carte internazionali impone all’Italia, nel caso specifico, l’osservanza delle prescrizioni meglio definite dalla Corte di Strasburgo anche per l’ipotesi in cui l’Europa (o singoli suoi componenti) dovesse fare orecchie da mercante con riguardo alle richieste di aiuto provenienti dall’Italia relative all’assistenza economica e al ricollocamento di una quota di migranti o alla messa in atto di una strategia diplomatico - militare (soluzione quest’ultima troppo poco presa in esame).
E’ questa una considerazione della quale non si può prescindere per misurare in concreto la forza di cui dispone l’Italia nelle trattative in sede europea e per paventare forse qualcosa di più del semplice divieto di accesso ai porti italiani (per quanto illegittimo allo stato esso possa apparire).
Di fronte agli sforzi isolati compiuti dal nostro Paese per assicurare la tutela inderogabile dei diritti umani imposta da una pletora di carte internazionali alle quali nessuno dei Paesi cosiddetti civili ha voluto (ipocritamente?) negare la propria adesione, forse è il caso di minacciare in sede diplomatica qualcosa in più della chiusura dei porti. Magari si potrebbe ventilare l’abbandono del sistema di tutela internazionale dei diritti fondamentali dell’uomo.