Perché la Corte costituzionale ha bocciato il referendum sulla legge elettorale
Le motivazioni della sentenza svelano come Salvini abbia ingiustamente attaccato la Consulta
La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale ha dichiarato inammissibile il quesito referendario sulle leggi elettorali di Camera e Senato proposto da ben 8 Consigli regionali e sponsorizzato alacremente da Matteo Salvini.
Qualche settimana addietro, quando la Consulta si è limitata a diffondere il comunicato stampa dell’esito della camera di consiglio, il leader della Lega non ha mancato di fare sentire la sua voce, accusando i giudici di rappresentare una sacca di resistenza del vecchio sistema che avrebbe operato una scelta in radicale contrasto con la democrazia.
La lettura della sentenza della Corte, tuttavia, consente di affermare come siano state le Regioni e lo stesso Salvini a proporre e sostenere un quesito referendario in radicale contrasto con principi giuridici consolidati oramai da parecchi decenni.
Di certo non si può accusare la Consulta di avere tirato fuori dal cilindro per la prima volta la regola che impone ai quesiti referendari abrogativi di leggi elettorali di essere auto applicativi.
Da decenni oramai è noto che l’effetto dell’abrogazione della legge elettorale deve essere quello di ottenere comunque un meccanismo di trasformazione di voti in seggi immediatamente efficace che non necessiti di ulteriori interventi del legislatore. Il rischio, infatti, sarebbe quello di incorrere in un sistema elettorale insufficiente che precluderebbe, in assenza di un intervento di completamento di Camera e Senato della legge elettorale, la possibilità di indire le elezioni in qualsiasi momento e di consentire l’esercizio della sovranità popolare anche il giorno dopo della celebrazione del referendum.
L’intento delle Regioni è stato quello di trasformare l’attuale sistema elettorale, da misto (in parte proporzionale, in parte maggioritario con collegi uninominali) a totalmente maggioritario.
L’esito del meccanismo di abrogazione delle leggi elettorali non avrebbe assicurato, però, l’auto applicabilità della normativa di risulta, perché sarebbe stata necessaria la rideterminazione, da parte del Parlamento, dei collegi elettorali per trasformarli tutti in uninominali.
All’indomani del referendum, cioè, l’ordinamento giuridico sarebbe stato privo di una legge elettorale immediatamente applicabile, in considerazione del fatto che sarebbe venuta a mancare la ripartizione del territorio nazionale nel numero di collegi uninominali necessari.
I promotori del referendum, consapevoli di questa insormontabile difficoltà, hanno proposto la contestuale modifica (per abrogazione) della legge delega che Camera e Senato hanno approvato nel 2019 per dare attuazione alla riforma costituzionale sulla riduzione dei parlamentari.
Poiché l’effetto del referendum sulla legge che ha autorizzato il Governo a fare fronte all’eventuale taglio di deputati e senatori avrebbe determinato lo stravolgimento dei caratteri della delega stessa, il quesito referendario è stato ritenuto particolarmente manipolativo e come tale inammissibile secondo l’insegnamento quarantennale della Corte.
Come si legge nel comunicato stampa che ha accompagnato la pubblicazione della sentenza, “Sarebbero stati infatti modificati tutti i “caratteri somatici” della delega originaria (oggetto, tempo, principi e criteri direttivi), al punto da dar vita a una nuova delega, potenzialmente destinata a un duplice esercizio (l’attuazione della riforma costituzionale sulla riduzione dei parlamentari e l’attuazione della legge elettorale risultante dal referendum).”
Non è stata di sicuro la Consulta, in defintiva, ad operare in contrasto con la democrazia.