Sul Coronavirus dal caos risuona l'appello all'unità. Paradossi.
Da quando stiamo affrontando la crisi scatenata dalla diffusione del Coronavirus si susseguono gli appelli all’unità. Il timore evidentemente è d’indebolire l’efficacia dell’azione del Governo, dei Presidenti di Regione, delle strutture sanitarie e di tutti coloro che in queste settimane sono chiamati ad assicurare il massimo sforzo per contrastare quella che oramai può essere considerata la minaccia più pericolosa degli ultimi decenni. Il dibattito, le accuse, le repliche, la necessità di presidiare l’agone politico, dove nessun può permettersi nemmeno per un istante di perdere consenso e visibilità, consumerebbero troppe di quelle energie che devono essere convogliate verso un unico obiettivo. La mancanza di sufficiente consenso all’azione promossa da chi dirige il Paese in questo momento, infine, metterebbe a rischio la possibilità di raggiungere il risultato definitivo.
All’appello all’unità, tuttavia, non segue mai alcuna professione d’umiltà da parte di coloro che a vario titolo si sono presi la briga di fornire una direttrice di marcia all’opinione pubblica e ciò nonostante la credibilità di quasi tutti sia stata messa a dura prova e per questa sola ragione gli italiani meriterebbero una tonnellate quotidiana di scuse.
Nel giro di qualche giorno, ad esempio, i Presidenti delle Regioni Veneto e Lombardia (non proprio due epidemiologi professionisti) si sono contraddetti in maniera plateale sulle misure da adottare per contrastare il Coronavirus. Sono passati, con nonchalance e senza mai cospargersi il capo di cenere, dalla richiesta di non esagerare con le misure di contenimento, alla richiesta di bloccare l’intero sistema delle relazioni sociali e produttive.
Ha fatto loro compagnia il Sindaco di Milano, che ha sostenuto sui social la campagna “Milano non si ferma” per poi impegnarsi con fare severo e grave, anche in questo caso senza alcun atto di contrizione pubblico, nella battaglia per il “restiamo tutti a casa”.
Sullo stesso canovaccio il capitano della Lega, Matteo Salvini, e la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Chi segue i due astri nascenti del populismo nazionale strapaesano può ancora oggi andare a ripescare tweet e post Facebook con le dirette crucciate o sbraiterete, a seconda del momento, in difesa del sistema economico nazionale e qualche giorno dopo l’appello al Governo Conte di serrare l’intera sistema produttivo.
Al Capo del Governo non è andata certo meglio. Ha titubato per adottare misure restrittive, ha permesso, con la corresponsabilità dei Ministri dell’Interno e dei Trasporti, che migliaia di persone si spostassero dalle regioni già colpite a quelle del mezzogiorno non ancora investite dall’onda dell’epidemia, non ha saputo tenere testa all smania di protagonismo dei Presidenti di Regione che, da Vincenzo De Luca in Campania a Nello Musumeci in Sicilia, ad un certo punto hanno rivendicato poteri assoluti sulla libertà di movimento dei cittadini.
Della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica non si hanno notizie degne di nota, se non quella che racconta come i due rami del parlamento abbiano convertito un decreto legge che prevede poteri indeterminati e generici in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri che ne sciorina in quantità con gli ormai famosi DPCM e l’altra che da conto di come non si riesca a trovare un modo per lasciare operativo, in piena crisi, l’organo costituzionale che rappresenta la sovranità nazionale.
Poi ci sono stati i battitori liberi, personaggi politici di secondo piano dal cui curriculum luccica al massimo un incarico di sottosegretario, la presidenza di qualche commissione parlamentare o, in fondo alla classifica, la leadership di qualche partito dello zero virgola. C’è chi accusa il liberismo di essere la causa del virus, chi vorrebbe approfittarne per riscoprire la bontà della decrescita felice, chi vorrebbe cogliere l’occasione per dimostrare che la sanità pubblica è bella mentre quella privata sarebbe ignobile.
Volgendo lo sguardo al mondo scientifico non si può certo sperare di trovare minore sconforto.
Luminari direttori di centri di specializzazioni si sono letteralmente azzuffati, a favore di telecamera, di taccuino giornalistico e raramente brandendo studi e ricerche scientifiche, sulla natura del Coronavirus. Per qualcuno non si sarebbe trattato altro che di una semplice influenza, per altri di un pericolo catastrofico. Il virus colpirebbe tutti, anzi no, solo quelli di una certa età che morirebbero “per” il coronavirus o forse solo “con" il coronavirus. Nel frattempo l’Istituto Superiore di Sanità, che ha analizzato alcune centinaia di cartelle cliniche di persone morte “durante” l’epidemia, afferma candidamente in una pubblicazione ufficiale che i decessi imputabili al coronavirus sarebbero due, forse.
Nel corso dei giorni non sono mancati i contributi di chi maneggia grafici, algoritmi, derivate prime e derivate seconde.
La curva dei contagi scende? Si, no, forse. E comunque non ha importanza perché è necessario osservare l’andamento del ospedalizzati, o meglio, di quelli intubati e forse, facciamo prima, di quelli deceduti.
Il picco è lontano, è vicino, è già passato. Meglio Hong Kong, meglio la Cina e ancora meglio la proposta di Boris Johnson di vedere come andrà a finire senza scervellarsi più di tanto.
Il giornalismo nostrano non ha voluto, infine, sfigurare. Gli esempi sarebbero troppi ed eccessivamente imbarazzanti per editori, direttori e giornalisti di vaglia. E’ sufficiente ricordare il malcostume nazionale: notizie che non sono notizie, enfasi smisurata sempre a prescindere, ricerca del sensazionalismo e dell’emozione ad ogni costo, mancanza di senso della misura.
Ogni scusa è buona per attaccare l’Europa o per difenderla, per ricordarci che ci confrontiamo col coronavirus come nazioni e non come umanità che popola lo stesso mondo, per scatenarci contro i tedeschi, contro i francesi e dividerci fra chi è pro e chi è contro la Cina. L’importante è parlare, urlare, presenziare. Da una tv, da una radio o da un account twitter.
Però dovete andarci piano con le critiche, perché ne andrebbe dell’unità. Capito?