Il Presidente del Consiglio dei Ministri che presiede ma non governa
Una fortunosa coincidenza porta nelle librerie un volume che mostra tutti i limiti della nostra forma di governo
Non avrebbe potuto scegliere periodo migliore, la casa editrice Biblion, per pubblicare il corposo volume curato da Leonida Tedoldi, docente di storia delle istituzioni e dei sistemi politici europei all’Università di Bergamo, che affronta uno dei temi più importanti nell’ambito degli studi delle istituzioni statali italiane.
Il libro, con un approccio multidisciplinare che ha coinvolto storici, giuristi e politologi, si occupa della nascita e dell’evoluzione della figura del Presidente del Consiglio dei Ministri a partire dalla promulgazione dello Statuto Albertino sino ai giorni nostri.
Il file rouge che tiene insieme i 23 saggi che compongono l’opera è rappresentato dalla condivisibile tesi secondo la quale il Presidente del Consiglio dei Ministri non avrebbe mai trovato, all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano, una collocazione stabile e un ruolo definito dalla attribuzione di poteri chiari e coerenti. Circostanze, queste, che hanno contribuito in maniera determinante, da un lato, a caratterizzare la debolezza del Capo dell’Esecutivo nei rapporti con gli altri vertici dello Stato italiano (Parlamento, Monarchia e Presidenza della Repubblica), dall’altro, a destabilizzare la nostra forma di Governo, che è risultata, così, incapace di assicurare compagini ministeriali adatte ad affrontare le sfide della modernità.
A causa del carattere generico e indeterminato delle norme che ne hanno disciplinato la figura, tanto durante la vigenza dello Statuto Albertino, quanto sotto l’egida della Costituzione Repubblicana, il Presidente del Consiglio è stato quello che le condizioni politiche, il carattere dei protagonisti e gli equilibri di forza emersi dalla circostanze concrete hanno consentito.
In alcune occasioni Egli ha assunto le fattezze del Conte di Cavour, di Francesco Crispi, di Giolitti o di Alcide De Gasperi; personaggi all’evidenza differenti, ma capaci di esprimere una leadership risoluta, d’imprimere una direzione di marcia all’intero Paese e di prevalere nei confronti della Monarchia o della Presidenza della Repubblica Ciò è avvenuto tuttavia in ragione della qualità del loro carattere, del carisma, del sostegno conquistato all’interno del Parlamento e delle circostanze politiche generali; mai in virtù dei poteri giuridici che le carte costituzionali hanno espressamente riconosciuto.
Nella maggior parte dei casi, invece, il capo del Governo si è dovuto limitare a esercitare un’opera di mediazione all’interno delle differenti tensioni politiche e istituzionali che hanno avuto come protagonisti parlamenti frammentati e destabilizzati, monarchi invadenti e riottosi a cedere prerogative in materia di difesa e politica estera, Presidenti della Repubblica amanti di un certo protagonismo.
Nonostante tutti gli sforzi e le qualità indiscusse, pertanto, individualità del calibro di Fanfani, Moro e Andreotti non sono riusciti ad andare più in là di quello che il quadro politico generale ha consentito, armati solo di poteri di indirizzo e coordinamento e mai investiti di un mandato elettorale forte e diretto, sul quale fare leva per imporre una linea di governo chiara e coerente.
L’esperienza del fascismo e di Mussolini, divenuto Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato contemporaneamente, leader dotato dei necessari poteri per annichilire il Parlamento e ridurre a mera comparsa la Monarchia sabauda, hanno condizionato i lavori della Costituente, indirizzandola ancora una volta verso la figura del Presidente del Consiglio, primus inter pares, che aveva mostrato tutti i suoi limiti già in epoca pre repubblicana.
Dai lavori della Costituente è venuta fuori così la figura di un Presidente del Consiglio privo della diretta investitura popolare, incapace di incidere sulla durata della legislatura, spogliato di qualsiasi possibilità di risolvere i conflitti all’intento del Governo o di prevalere sulle figure dei singoli ministri. Il sistema politico frammentato, infine, ha fatto il resto, impedendo al Presidente del Consiglio di essere il Capo della maggioranza parlamentare al governo.
A Costituzione invariata, dagli anni 90 in avanti, il sistema elettorale, con la prevalenza dei collegi uninominali prima e con un sostanzioso premio di maggioranza poi, ha consentito un’investitura politica (non giuridica) dei leader delle coalizioni partitiche, forti anche della semplificazione complessiva del sistema politico. Ma mai niente di risolutivo sotto l’aspetto della attribuzione di poteri costituzionali di definizione dell’indirizzo politico e di prevalenza rispetto al Consiglio dei Ministri o alle forze politiche parlamentari.
Il libro curato dal Prof. Tedoldi mette bene in evidenza come non sia mai mancata nella classe dirigente italiana la consapevolezza dei limiti intrinseci della Presidenza del Consiglio dei Ministri, come provano i numerosi tentativi di rafforzarne ruolo e poteri attraverso la modifica degli articoli 92 e 95 della Costituzione. Ne sono testimonianza, infatti, il progetto di legge predisposto già nel 1952, i lavori della Commissione Bozzi, quelli della omologa De Mita-Iotti, la bicamerale di D’Alema e percorsi vari di revisione costituzionale. Tutti tentativi accuratamente boicottati, per una ragione o per un’altra, dai principali protagonisti delle diverse epoche politiche.
Centosessanta anni di consapevolezza delle debolezze del Presidente del Consiglio dei Ministri e della forma di governo hanno partorito solo la legge di riorganizzazione degli uffici e dei dipartimenti del Capo del Governo (legge 400/1988) e la convinzione infondata che il sistema elettorale possa rafforzare, di fatto, un’istituzione che rimane, invece, debole per intrinseci limiti costituzionali. Un tema da riprendere oggi con particolare urgenza, anche grazie al contributo di questo prezioso volume (Il Presidente del Consiglio dei Ministri dallo Stato liberale all'Unione Europea a cura di Leonida Tedoldi, Biblion edizioni, 527pp., 30 euro)