Quando festeggiare la Repubblica non è ancora abbastanza
Il 2 giugno festeggiamo il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. Abbiamo la democrazia, ma non ancora libertà a sufficienza
Chi volesse compiacersi nel ripercorrere le critiche più feroci alla Monarchia come forma di governo, potrebbe rileggere, in vista della festa della Repubblica, le pagine molto efficaci di Common Sense, scritte da Thomas Paine per infuocare il dibattito sulla rivendicazione d’indipendenza delle colonie americane dalla madre patria inglese.
Il lettore troverebbe immediata soddisfazione nella serrata e implacabile reprimenda del polemista americano che sottolineò innanzitutto l’irrazionalità di un sistema che si affida alla sorte della successione dinastica per selezionare il vertice più rappresentativo, e a quell’epoca ancora responsabile, della direzione politica nazionale.
Il compiacimento, tuttavia, durerebbe appena un attimo, sino a quando la curiosità intellettuale dovesse spingere il nostro fustigatore della Monarchia a spostare l’attenzione dall’interrogativo “chi deve comandare” alla comprensione del “come si deve comandare”.
Da tutt’altra angolazione, infatti, apparirebbe chiaro come possano esistere monarchie costituzionali liberali, regimi costruiti sulla tutela delle libertà fondamentali dell’individuo, e Repubbliche democratiche illiberali, all’interno delle quali il riconoscimento delle più elementari condizioni di sopravvivenza individuale dipende dal capriccio della maggioranza degli elettori o dalla compagine parlamentare selezionata per governare.
Vivere in una Repubblica, infatti, non garantisce automaticamente il godimento delle opportunità e della serenità offerto da un regime autenticamente liberale, ma assicura solamente il coinvolgimento del maggior numero possibile di cittadini nell’agone pubblico e nelle procedure di selezione delle decisioni politiche.
Se ne accorse, ad esempio, James Madison nel Federalist n. 10, quando non fece mistero del fatto che anche in una Repubblica “il bene pubblico viene trascurato nel conflitto delle parti contrastanti e che vengono spesso prese delle misure, non in base a principi di giustizia o in considerazione dei diritti della minoranza, ma in forza della superiorità numerica della maggioranza interessata e prepotente.” I regimi repubblicani, non meno delle monarchie, possono essere afflitti dalle nefandezze commesse delle fazioni, vale a dire da “un gruppo di cittadini che costituiscano una maggioranza o una minoranza, che siano uniti e spinti da un medesimo e comune impulso di passione o di interesse in contrasto con i diritti degli altri cittadini o con gli interessi permanenti e complessi della comunità”.
Quasi 50 anni dopo, Alexis de Tocqueville, con parole forse più incisive, espresse in modo ancor più chiaro le sue preoccupazioni sullo strapotere di cui gode la maggioranza in un regime democratico repubblicano.
“Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte - scrisse l’autore de La democrazia In America - poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono più disposto ad infilare la mia testa nel giogo soltanto perché mi viene presentato da un milione di braccia”.
Di ribadire il concetto s’incaricano poco dopo John Stuart Mill nei due saggi “Sulla Libertà” e “Considerazioni sopra il governo rappresentativo” e Herbert Spencer ne “L’uomo contro lo Stato”.
Mill elaborò la massima che dovrebbe orientare l’esercizio del potere politico anche nelle Repubbliche affinché siano liberali prima ancora che democratiche: “l’unico fine dell’esercizio di un potere legittimo su qualsiasi appartenente a una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è quello di prevenire il danno agli altri”. Spencer si preoccupò di scandagliare sino in fondo le degenerazioni che potrebbe manifestare una Repubblica ed espresse un concetto tanto semplice quanto troppo trascurato: ”Non è la natura del sistema di governo sotto il quale vive il cittadino, ovvero se sia rappresentativo oppure no, a darci la misura della sua libertà, quanto invece l’esiguità di vincoli cui è sottoposto”.
La riflessione sulla insufficienza della democrazia e della forma di Stato repubblicana a garantire l’effettività di un regime politico liberale, non ha mai subito battute d’arresto, tanto è vero che Karl Popper in pieno novecento ammonì di stare in guardia perché “anche una maggioranza può governare in maniera tirannica”.
Il due giugno del 1946 gli italiani archiviarono il capitolo della storia della Monarchia di Casa Savoia, più per le oggettive e colpevoli compromissioni della famiglia reale con il fascismo che per la consapevolezza di una migliore scelta istituzionale.
L’edificio della nuova Repubblica trovò il suo naturale sviluppo nella Carta costituzionale che per la prima volta riconobbe agli italiani un insieme di diritti e liberà fondamentali che segnavano una svolta radicale rispetto al ventennio precedente.
Da 74 anni l’Italia è una Repubblica democratica non ancora sufficientemente liberale, però. Il potere della maggioranza su troppe questioni che coinvolgono la libertà individuale è rimasto pressoché assoluto e la Costituzione materiale, la lettura che della Carta hanno offerto per decenni legislatori, studiosi e Tribunali, non ha rappresentato un argine resistente alla aggressioni delle consorterie che tanto preoccuparono James Madison.
Il Parlamento è ancora oggi quello che Walter Bagheot descrisse negli anni sessanta dell’ottocento in The English Constitution, “…un despota dotato di tempo e di vanità illimitati, che ha, o crede di avere, capacità di comprensione smisurata, il cui piacere sta nell’azione, la cui vita è proprio questo lavoro”, e troppe conquiste nel campo dei diritti e delle libertà individuali dipendono dalle decisioni delle Corti internazionali che le istituzioni italiane sono costretta a osservare.
La libertà individuale è continuamente esposta al capriccio della volontà della maggioranza e l’architettura costituzionale non riesce a frenare le fiammate populiste che la prendono di mira per piegarne le potenzialità alla realizzazione dell'interesse pubblico, niente altro, quest’ultimo, che il privilegio rivendicato da una fazione maggioritaria.
Il sacrificio della ricerca individuale della felicità è il prezzo che paghiamo da decenni sull’altare della cosiddetta pace sociale, la soddisfazione dell’interesse di numerose organizzazioni partigiane, rumorose e prevaricatrici, descritta con linguaggio ipocrita e mistificatorio.
Non basta festeggiare il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, quando la libertà individuale è mortificata quotidianamente. Meglio ricordarlo, il due giugno di ogni anno, per esempio.