Tra Stato e mercato: sulla gestione dei servizi pubblici la Costituzione rimane indifferente, purtroppo
La Consulta ha ribadito che spetta al legislatore definire la modalità di gestione dei servizi pubblici, con buona pace del principio di sussidiarietà orizzontale
C’è una buona notizia per i pochi liberisti che vivono in questo Paese. E c’è una buona notizia anche per la moltitudine di statalisti che assediano la Penisola. La lieta novella in realtà è una sola, proviene direttamente dalle stanze della Corte costituzionale italiana e suona più o meno cosi: la Costituzione repubblicana riconosce ampia libertà alle amministrazioni pubbliche di affidare la gestione dei servizi d’interesse generale alle imprese che operano all’interno del libero mercato o, in alternativa, ai propri uffici e alle proprie articolazioni interne.
Detto più semplicemente: il legislatore può costringere le pubbliche amministrazioni a rivolgersi al mercato delle imprese private per ricercare le soluzioni più economiche ed efficienti, può decidere di imporre loro il cosiddetto affidamento in house e ha la facoltà, infine, di consentire quest’ultima modalità di gestione dei servizi solo dopo che gli enti affidatari abbiano dimostrato la diseconomia e l’inefficienza dell’appello al libero mercato. Cosicché, se il Parlamento approva una legge che consegna ai privati la gestione dei servizi pubblici, gli statalisti non potranno lamentare alcuna violazione di principi costituzionali, allo stesso modo di quanto non potranno fare i liberisti nell’ipotesi opposta.
Nel silenzio della Costituzione, nel 2008 il legislatore aveva riconosciuto la legittimità dell’affidamento in house, nella materia dei servizi pubblici locali, solo in presenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato». L’irrazionale ondata della teoria dei beni comuni, incapace di distinguere fra proprietà pubblica di una risorsa e gestione privata del servizio di interesse collettivo che quella risorsa utilizza, ha determinato l’abrogazione con referendum della citata norma e la restituzione alle pubbliche amministrazioni della possibilità di scegliere le modalità di gestione del servizio, compreso l’affidamento in house.
E’ rimasta in vigore una disposizione del 2012 che prevede per l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica la necessità di una relazione della pubblica amministrazione che dia conto delle ragioni economiche che giustificano l’affidamento in house invece dell’assegnazione a un impresa selezionata fra le tante che vivacizzano il libero mercato. Mentre una norma del nuovo codice degli appalti, infine, prescrive che “Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
Ed è proprio con riguardo a quest’ultimo articolo di legge che la Consulta, dopo avere confermato la legittimità dell'obbligo imposto alle amministrazioni di dare conto della scelta dell'affidamento in house, ha chiarito, qualche giorno addietro, come l’ordinamento costituzionale rimanga, tuttavia, indifferente rispetto alla modalità di gestione di qualsiasi tipo di servizio pubblico.
In base al modo di vedere e intendere i rapporti fra Stato ed economia, ciascuno di noi potrà apprezzare la mezza vittoria o la mezza sconfitta. Non potrà dimenticare, tuttavia, l’esistenza del quarto comma dell’articolo 118 della Costituzione, secondo il quale “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Una norma, quella citata, che codifica il cosiddetto principio di sussidiarietà orizzontale e che dovrebbe rappresentare un’indicazione chiara ed esaustiva per preferire l’affidamento al mercato di qualsiasi servizio pubblico per il quale si registri un’offerta degli imprenditori privati. Una prescrizione di rango costituzionale che è rimasta, però, fuori dalla ricognizione dei radar del legislatore e della stessa giurisprudenza costituzionale.
Che poi l’affidamento in house rappresenti nella maggior parte dei casi un’occasione per rimpinzare il ceto politico (e le clientele al seguito) di prebende economiche, posti di lavoro e consulenze, tutto rigorosamente immeritato, è un dettaglio che dovrebbe fare la differenza. Come quello di misurare l’efficienza dei servizi erogati dalla miriade di amministrazioni e società pubbliche che preferiscono non affidarsi al mercato. Basterebbe riprendere il discorso, ad esempio, della percentuale di dispersione di acqua pubblica all'interno delle infrastrutture gestite da comuni e società d'ambito.
Ma di queste nefaste e ataviche conseguenze nella gestione dei servizi pubblici non si può certo dare la colpa alla Corte costituzionale.