Il femminismo e gli uomini dopo Colonia e Charlie Hebdo
Mi ricordo che quando, decine di anni fa, alcune donne decisero improvvisamente di manifestare con le parole d'ordine “Io sono mia”, noi maschi trovammo strampalata e un po’ buffa quella rivendicazione. Ci mettemmo un po’ a capire di che cosa si trattava, a partire dalla prima conseguenza: che non erano più le “nostre” donne. Dopo di allora il pensiero femminista non ha fatto che arricchirsi e sofisticarsi, e le persone come me, che da un certo punto in poi non hanno tenuto dietro a quel progresso, hanno avuto l’impressione che la sua complessità andasse a scapito dell’effetto sconvolgente che avevano avuto quelle prime formulazioni, che, incubate a lungo, erano emerse all’improvviso e ci avevano messi in una soggezione vergognosa. Noi uomini non ci siamo trovati nella condizione di proclamare “Io sono mio”, non almeno per la nostra qualità di uomini: è anagraficamente scontato. Nelle donne, a cominciare dalla capigliatura, dallo sguardo, dall’abbigliamento, ogni scelta elementare rivendica quel “Io sono mia”, o la sua espropriazione. Le disgrazie di questi giorni rimettono all’ordine del giorno la questione. A Colonia, dove peraltro finalmente ho capito ieri, grazie a Udo Gümpel, che i “Mille” del branco di violentatori erano un errore di traduzione dal tedesco. O a Parigi, dove la commemorazione ha messo in risalto la differenza fra il 7 gennaio di Charlie e dell’Hypercacher e il 13 novembre. A gennaio si era proclamato “Je suis Charlie”. A novembre il bersaglio sono diventati “tutti”, e si sarebbe inalberato un cartello con su scritto: “Je suis moi”. io sono io. Una tautologia ancora più buffa e imprevedibile che l’“Io sono mia”, venuta dal paese che aveva immaginato di dire “Je est un autre”. E’ di volta in volta un diverso grado e qualità della violenza a correggere il lavoro della solidarietà e della distinzione: della solidarietà che distingue.
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