Proteste contro il governo a Baghdad (foto LaPresse)

La difficile tripartizione dell'Iraq

Adriano Sofri
L’ultimo arrivato, a Baghdad e a Erbil – ormai nessun notabile internazionale può fare a meno della doppia tappa – è stato il vicepresidente Biden, fautore di una tripartizione dell’Iraq fra sciiti, sunniti e curdi, a suo tempo ritenuta imprudente, oggi data pressoché per scontata da tutti, ad alta

L’ultimo arrivato, a Baghdad e a Erbil – ormai nessun notabile internazionale può fare a meno della doppia tappa – è stato il vicepresidente Biden, fautore di una tripartizione dell’Iraq fra sciiti, sunniti e curdi, a suo tempo ritenuta imprudente, oggi data pressoché per scontata da tutti, ad alta o bassa voce. Che genere di tripartizione, resta il problema. Ma anche questo sembra deciso negli incontri diretti: una “confederazione”. Il termine, che non ha niente a che fare col “confederalismo democratico” promosso da curdi turchi e siriani ispirati a Ocalan, aiuta ad attenuare la rivendicazione di indipendenza delle diverse componenti, e al tempo stesso ad assicurare che sia più larga di un’unione federale. Da una confederazione ci si aspetta che metta in comune difesa e politica estera, oltre che la moneta, proprio i temi sui quali più ostico è il consenso fra le componenti irachene.

 

Gli Stati Uniti hanno deciso di finanziare mensilmente i peshmerga impegnati in prima linea contro Daesh, che vuol dire a questo punto nella battaglia per Mosul. L’Iran, da cui tutte le fazioni politiche della shia in Iraq dipendono per intero, dichiara di aver fatto sapere ai curdi di non essere disposto ad accettare la divisione dell’Iraq: bisogna vedere se la “confederazione” stia o no dentro la divisione. Dico le fazioni politiche sciite, perché l’autorità religiosa del grande ayatollah Sistani ha ancora una sua autonomia, e non è escluso che nella attuale bagarre di Bagdhad pesi anche il desiderio iraniano di avocare a Qom l’intero magistero sciita. Del resto è difficile capire chi faccia la politica estera iraniana, se il governo di Rohani e Zarif, gli interlocutori sperati di Mogherini e di Obama, o il Qasim Suleimani che muove le armate sciite in tutto il medio oriente e oltre, e risono solo all’ayatollah Khamenei.

 

La Turchia sopporterebbe un’indipendenza curda a Erbil a condizione di soffocare l’aspirazione “confederale-democratica” dei curdi suoi e siriani. La Russia gode della sua nuova posizione di forza, e cerca di tenersi buoni tutti. Israele è da tempo la più favorevole al Kurdistan di Erbil. Per ora tutta questa trama somiglia alla storia di quello che portava al mercato la sua ricottina. E’ difficile resistere alla metafora della diga di Mosul. Enorme com’è, fu costruita da provetti tecnici europei (tedeschi e italiani, quanto all’esecuzione) su un fondo di gesso friabile e permeabile, e mantenuta a furia di iniezioni di malta, come un malato attaccato ai tubicini della rianimazione. La diplomazia internazionale è come una enorme impresa Trevi, i cui commessi viaggiatori vanno e vengono a Baghdad e a Erbil, per non parlare della Siria, a fare iniezioni di colla alla carta geografica strappata.

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