La risposta di don Loris Capovilla alla domanda “Come vedo la mia morte?”
E’ morto, lucido centenario, don Loris Capovilla, che Papa Francesco aveva nominato fra i cardinali. Alcuni anni fa, molto prima che l’arcivescovo di Buenos Aires arrivasse al pontificato, don Loris rispose a una rivista catalana che dedicava un numero speciale alla domanda: “Come vedo la mia morte?”. Trascrissi allora e trascrivo di nuovo la sua risposta, per unirmi al saluto che aveva immaginato. “Da un decennio mi fa buona compagnia un pensiero, non saprei dire se amaro o realistico, di Hermann Hesse: ‘Quando uno è diventato vecchio e ha adempiuto la sua parte, il compito che gli spetta è di fare, in silenzio, amicizia con la morte; non ha più bisogno degli uomini, ne ha incontrati abbastanza’.
Il gomitolo della mia esistenza si è dipanato tra due eventi funebri: la morte di mio padre quando avevo 6 anni; di mia madre quando ne avevo 69. Dentro questo spazio splende il transito pentecostale di Papa Giovanni. Pertanto l’Angelo della morte mi sta appresso da sempre, e non è uno scheletro con la falce in mano; è un raggio di luce che squarcia le tenebre. La mia ora non può tardare. Ci penso ogni giorno, talvolta con un pizzico di malinconia, e mi dispongo al giudizio senza presunzione e senza timore. Non sono così stolto da ritenermi un ‘giusto’. Conosco quanto basta il consuntivo finale. Ripeto sovente: ‘Ho terminato la corsa, ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede’ (2 Tm 4, 7). Nutro fiducia sulle sorti del pianeta Terra. Continuo a proporre attenuanti alle colpe dell’umanità, non per inclinazione al vituperato ‘buonismo’, ma per dovere di giustizia temperata dalla misericordia. Sul dipartirmi dal mio amato romitorio e dalle persone care, mi investe l’infiammato amore di San Francesco per tutte le creature: ‘Vorrei condurvi tutti in Paradiso’; e mi conferma nella fede il ‘redo’ di Papa Giovanni: ‘La mia giornata terrena finisce, ma il Cristo vive e la sua Chiesa ne continua l’opera nel tempo e nello spazio’.
Vedo nitidamente la breve sosta del mio frale sul pavimento della cappella domestica di Camaitino e il salmodiante percorso verso il solatio e spoglio cimitero montano; vedo la bara scendere nella nuda terra e sento le voci degli accompagnatori dirmi piamente ‘Addio’ col volto rigato dalle lacrime e il sorriso sulle labbra, consapevoli che tutto è bello e nuovo nel fulgore del Risorto: ‘Tutto è grazia’”.
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