L'anniversario del massacro di yazidi
Ieri è stato solennemente ricordato in Kurdistan e in alcune capitali internazionali il secondo anniversario del massacro di yazidi perpetrato a Sinjar-Shingal dall’Isis, 3 agosto 2014. In poche ore di quel giorno furono assassinati centinaia di yazidi, soprattutto uomini. Nei giorni seguenti la caccia continuò, migliaia di donne e bambine rapite e asservite, uomini torturati, uccisi e gettati in fosse comuni – molte poi scoperte – famiglie fuggite a cercar riparo sulla montagna, senza cibo né acqua. Allora per la prima volta la coalizione a guida americana intervenne con i bombardamenti aerei e molti di quegli sventurati fuggiaschi furono salvati e ospitati nei campi del Kurdistan.
In questi due anni una rete volontaria e intrepida, specialmente di donne yazide, è stata capace di aiutare la fuga di prigioniere del califfato o di ricomprarle dagli aguzzini. Oggi sono ancora 3370 le donne, le bambine e i bambini ancora in mano dei farabutti dell’Isis. La persecuzione dei curdi yazidi da parte dell’Isis è il più chiaro esempio di genocidio. I farabutti dell’Isis, che perseguitano altre minoranze e i cristiani di ogni confessione come infedeli, gli sciiti come eretici e i sunniti riluttanti come apostati, trattano gli yazidi, popolo mite e cordiale, come “adoratori di Satana” degni solo d’essere sterminati. Ciò che non impedisce loro di stuprarne le donne e le bambine, usarle come schiave sessuali, passarsele a pagamento. Sinjar-Shingal è stata liberata dai peshmerga, con la partecipazione di combattenti yazidi, nel novembre scorso. Ma ancora il territorio non è sicuro abbastanza, né la ricostruzione adeguata al ritorno degli abitanti. Raramente un genocidio è stato così osservato e documentato nel suo corso dalla comunità internazionale. Una quantità di parlamenti, compreso il parlamento europeo, e la commissione dell’Onu per i diritti umani hanno riconosciuto che di genocidio si è trattato e si tratta. Tuttavia ancora nessun tribunale internazionale ha aperto un processo con questa imputazione, né ha contribuito alle indagini che con mezzi inadeguati volonterosi magistrati curdi di Dohuk perseguono tenacemente. Perché il Tribunale Penale Internazionale non l’ha ancora fatto?
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