Perché bisogna finire, ogni tanto, negli ospedali
Il 4 agosto ho fatto un’operazione di quelle definite di routine. Il 12 ho avuto delle severe complicazioni che mi hanno riportato in ospedale, dove mi trovo tuttora, per altri due interventi. Mi sono ingegnato a far uscire comunque delle magre piccole poste, per evitare di impensierire amici e parenti in tempo di vacanza. Tutto questo è diventato un mio modo concorrente del ferragosto in carcere radicale, cui altre volte aderii da dentro o da fuori. Oggi uno spirito militante ha una scala di mete in cui andare a saggiare il mondo, il vicino oriente, poi Calais, poi le galere, che sono anche degli ospedali non riconosciuti, e poi gli ospedali ufficiali. Dunque se Dio vuole e il direttore anche pubblicherò il mio reportage, appena rimesso in libertà. Un’altra affinità radicale sta nel fatto che io oggi tocco l’undicesimo giorno di digiuno totale, senza averlo devoluto ad alcuna buona causa.
Mentre me ne rammaricavo mi sono ricordato di Aleksej Nilic Kirillov. E’ quel personaggio dei Demòni di Dostoevskij che ha deciso di suicidarsi perché solo così si può liberarsi dalla soggezione alla paura del dolore e dell’altro mondo. I cospiratori gli stanno untuosamente addosso: visto che comunque rinuncia alla vita, insinuano, perché non prende su sé la colpa dell’omicidio di un innocente da loro commesso? Lui li disprezza e alla fine, proprio per disprezzo, accetta. I commentatori avrebbero dovuto ricordarsi dell’ingegner Kirillov nei giorni infestati dagli squilibrati che magnificavano la propria morte, cioé la propria vita, facendone un’arma di strage in nome e su insinuazione dell’Isis. Naturalmente fra Kirillov e questa marmaglia c’è una differenza enorme, ma forse dal punto di vista attuale conta più l’affinità. “Perché sprecare la propria morte?”, è il fondamento dell’economia del terrore. Dunque ho deciso di non devolvere il mio digiuno a nessuna causa, foss’anche il destino delle farfalle monarca: serva, se serve, al mio solo avanzo di sopravvivenza.
Quello che Kirillov a suo modo aveva capito è che il mondo è dominato dal dolore. Per questo bisogna finire ogni tanto negli ospedali, come nelle galere del resto. E’ difficile che gli esseri umani non facciano prima o poi l’esperienza del dolore, ma è in principio l’esperienza del proprio personale dolore, quello del quale si aspetta che finisca per ricominciare con la festa, senza più ricordarsene e dunque senza più accorgersi della festa. Ma gli ospedali sono un’adunata del dolore collettivo, il dolore fisico che fa piangere e chiamare aiuto e pregare Dio e inveirgli contro. Così, in un ospedale, il proprio dolore e quello altrui si mescolano senza soccorrersi e avvertono che la vera divisione del mondo è fra chi vive senza dolore e chi vive (e muore) nel dolore. Il mondo ha anche inventato analgesici potenti per il dolore dei vivi e cure palliative per il dolore dei morenti. Tuttavia il dolore tenace e schiacciante dei vecchi è una rivalsa di quel vecchio padrone, che si prende i suoi migliori trionfi nei campi in cui bambini e donne e vecchi crepano senza il tempo di devolvere la propria morte a nessuna causa, né buona né cattiva.
Il Foglio sportivo - in corpore sano