Yazidi (foto LaPresse)

Il genocidio ignorato degli yazidi

Adriano Sofri
Torna alla luce una strage trattata come episodio pittoresco: un popolo di adoratori dell’angelo pavone, dai santi segreti, senza scritture o quasi, un capitolo improvviso dell’entomologia genocida. Il racconto inascoltato del genocidio degli yazidi e la scoperta delle fosse comuni dell’Isis.

Ieri un aggiornato rapporto sulle fosse comuni di vittime dell’Isis in territorio siriano e iracheno faceva ammontare a 72 i siti delle sepolture di massa, e fino a 15 mila i corpi che vi si possono trovare. (Convenzionalmente, si chiamano “mass graves”, o fosse comuni, i luoghi in cui siano stati seppelliti almeno quattro corpi). A gennaio scorso, nel territorio finalmente liberato – benché non per intero – di Sinjar erano state ritrovate oltre 35 fosse comuni, sulla scorta di testimonianze degli scampati o del caso. Là le vittime sono pressoché tutte yazide, appartenenti alla minoranza più superstiziosamente odiata e perseguitata dall’Isis, che presso Mosul e nella provincia di Ninive contava fra le 4 e le 500 mila persone.

 

Uomini e ragazzi vennero sterminati, a volte dopo aver resistito a un’intimazione a convertirsi. Donne e bambine rese schiave e asservite agli sfoghi sessuali e padronali dei miliziani neri, e scambiate brutalmente sul mercato. A lungo, nonostanti le evidenze travolgenti e le proteste di fratelli e soprattutto sorelle che vivevano nel Kurdistan iracheno, lo sterminio degli yazidi venne trattato come un episodio pittoresco: un popolo di adoratori dell’angelo pavone, dai santi segreti, senza scritture o quasi, un capitolo improvviso dell’entomologia genocida. Perfino la tragica denominazione di “popolo dei 72 genocidi” prendeva un’aria buffa. I loro santuari erano rasi al suolo furiosamente e si imparava a riconoscerne le eleganti guglie a cono scanalate nelle fotografie che seguivano la distruzione.

 

La prima volta che andammo a Lalish, la cittadella santa yazida, io e Pietro Del Re, che scrivevamo per Repubblica, ci accorgemmo che Lalish era intatta, mentre i giornali di tutto il mondo ne avevano annunziato la distruzione: non bastò a fare notizia. Io feci una piccola campagna di qualche mese scrivendo “ezida” invece che “yazida”, nella speranza di restituire quella dizione più esatta, invano. Era come ricominciare da tre. Dopo di allora, chi ha voluto ha saputo. Bambine yazide hanno raccontato al mondo le violenze che avevano subìto. Baba Sheikh, che chiamiamo “il papa yazida”, ebbe il coraggio di ammonire i suoi a non considerare più una vergogna che le loro bambine e donne fossero state vIolentate.


Una rete di coraggio e generosità fu intessuta per riscattare le rapite alla prigionia e all’umiliazione. Ragazze yazide hanno parlato alla tribuna delle Nazioni Unite scuotendo l’uditorio. Alcune sono arrivate al Parlamento romano a raccontare la loro storia e della loro gente, accompagnate dal medico e galantuomo già dell’Unicef poi di se stesso che si chiama Marzio Babille: non mi pare che sui giornali la cosa sia trapelata. Nemmeno l’incontro fra Baba Sheikh e il Papa romano, ormai due anni fa, avesse superato le righe di agenzia. Sono persone miti e ammirevoli per dignità, gli ezidi. Condividono un tratto patriarcale cui non sfugge alcuna delle culture di quel crogiolo di genti, ma hanno una cordialità aperta che rende grato il visitatore, almeno quanto certi santuari indiani. Nei mesi scorsi siamo tornati qui più volte sulla inconcepibile ottusità istituzionale che non ha ancora fatto investire la Corte penale internazionale, e le sue risorse materieli e umane, dell’indagine per genocidio. I cui preliminari erano già istituiti al tempo di Carla Del Ponte. Intanto si moltiplicano le scoperte dell’archeologia funeraria che è il coronamento dell’umanesimo contemporaneo.

 

Sono passati poco meno di due anni da quando per la prima volta ascoltai a Dohuk il racconto terribile e intrepido della bambine e della ragazze che erano scappate dai loro aguzzini jihadisti. A ridosso di quel racconto incontrai in un ufficetto due modesti magistrati della città di Dohuk, provincia estrema del Kurdistan gremita di profughi. I due avevano costituito una Commissione d’inchiesta per il crimine di genocidio. Si chiamavano, e si chiamano, Sail Khider Khalaf, procuratore, e Ayman Mostafa, giudice. “Vogliamo impedire che il tempo confonda le tracce. Raccogliamo le testimonianze, sugli stupri, i suicidi, gli ammazzati e scomparsi, la compravendita di esseri umani. Cataloghiamo le fosse comuni man mano che si riconquista il Sinjar.

 

Abbiamo un testimone che fu costretto a seppellire 64 persone. Un altro ha raccontato di averne dovute coprire 70 col suo bulldozer. Intendiamo portare le prove al Tribunale penale dell’Aia, e riportare da noi la giustizia. Lavoriamo anche coi video dell’Is, e coi selfie che gli uomini di Daesh si fanno sopra le vittime, e li ritroviamo sui loro cadaveri. Manchiamo di risorse e competenze: per la mappatura satellitare, le indagini genetiche, com’è avvenuto in Argentina, a Srebrenica… Voi avete periti, e strumenti adeguati, sappiano che li aspettiamo. Abbiamo a malapena un ufficio. Non abbiamo un team forense. Ma noi proveremo la volontà genocida, e il mondo dovrà riconoscerla”. Ho ripubblicato il resoconto di quell’incontro non so quante altre volte, da allora. Le fosse comuni non sono una così gran notizia. Non si riesce nemmeno a mettersi d’accordo su come chiamarli, ezidi, o yazidi o yezidi, vivi o morti.