Il Kurdistan è in allerta per l'annunciato esodo di profughi da Mosul
Man mano che si avvicina l’appuntamento tanto atteso e tanto rinviato della riconquista di Mosul, crescono anche le preoccupazioni sulle sue difficoltà e sugli effetti possibili. Mosul ha ancora più di un milione di abitanti, due col circondario. Niente di paragonabile alle battaglie, pur logoranti, per Ramadi e Fallujah. Se si facesse un paragone con Sirte, dove settimane intere e centinaia di nuove vittime servono allo sgombero dai recessi cittadini di poche pattuglie di cecchini e suicidi, la prospettiva apparirebbe terribile. Anche a immaginare lo scenario meno macabro rispetto all’uso dei civili come scudi umani da parte dei miliziani dell’Isis, la liberazione di Mosul fa incombere sul confinante territorio del governo regionale curdo un esodo di fuggiaschi che si aggiungerebbe di colpo al già esuberante milione e mezzo di sfollati e profughi. Un peso umano e un costo materiale allarmante per un’economia del Kurdistan da tempo in crisi, così come i bilanci delle organizzazioni internazionali. Il Kurdistan resta la meta principale dell’esodo, per ragioni di contiguità geografica e per l’impossibilità che profughi arabi sunniti – tanto più reduci da oltre due anni di sottomissione al Califfato – si facciano ospitare in territori a maggioranza sciita.
Dunque una doppia pressione, politico-demografica, per l’accoglienza almeno provvisoria di un così gran numero di fuggiaschi, e militare, per il ruolo comunque decisivo che dai peshmerga curdi si aspetta nell’avanzata da oriente alla volta di Mosul, si fa sentire sul Krg. Per questo vanno seguiti con speciale attenzione gli sviluppi spesso sconcertanti delle tensioni politiche interne al Kurdistan cosiddetto iracheno. Alcune delle quali sono analoghe o comunque connesse a quelle che forzano la situazione dei curdi di Siria e di Turchia, arrivati a una resa di conti con l’esercito turco, oltre che con l’Isis, con altri ribelli arabi e con le truppe di Assad nel territorio di Manbij. Forze militari curde direttamente o indirettamente legate al Pkk sono presenti nella zona del Sinjar e intenzionate a prendersi una loro parte nella controffensiva per Mosul. E c’è la endemica rivalità fra Pdk di Erbil e Dohuk e Puk di Suleymaniah e Kirkuk, lungi da una regolazione stabile e lungimirante. Nello stesso Puk, che da sempre accusa il Pdk di coincidere con la dinastia tribale dei Barzani.
E’ appena esplosa una divisione interna fra un’altra dinastia, quella che fa capo al carismatico fondatore “Mam Jalal”, lo Zio Jalal Talabani, 82 anni, dal 2012 reso invalido da una grave malattia, alla sua mitica moglie, Hero, e ai loro figli, e quella che fa capo agli uomini forti di una gloria politica e militare di veterani, che hanno a loro volta famiglia, ma si mostrano più insofferenti di nepotismi e corruzioni interne. I due capi più prestigiosi di questa corrente, Barham Salih e Kosrat Rasoul Ali, hanno dichiarato di voler sottoporre ogni decisione del Puk fino al futuro congresso a un nuovo organo che metta fine a nepotismi e corruzione e riporti il partito “alle sue radici popolari”. La reazione dei famigliari di Talabani, è stata immediata, ha escluso che qualunque sostituzione alla guida del Puk possa avvenire finché il vecchio capo sia in vita, e anche, per così dire, oltre: un po’ come avviene per i campioni troppo grandi per riassegnare a un successore il numero della maglietta.
La partita è delicata e complicata anche dalla trattativa ormai aperta sul rientro nell’alveo del Puk del Gorran, il partito che se ne era scisso ottenendo inizialmente un forte successo elettorale. E’ paradossale ricordarlo in un contesto esterno come quello in cui si muovono i curdi del Krg, ma nella proliferazione delle loro rivalità intestine si fa sempre sentire un tintinnio di sciabole, come si diceva da noi. I curdi e i quattro grandi paesi che li tengono in ostaggio e li giocano gli uni contro gli altri sono gli eroi di una grande epopea, ma anche i candidati perenni a guerriglie e guerre fratricide, la faccia triste dell’epopea.
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