Il fenomeno “epocale” è non capire
Anni di fesserie su emigranti e Cie. Poi un Tir, una ragazza. E da capo
La migrazione “non è un’emergenza”, non è “un fenomeno contingente”, è “un fenomeno epocale”. Da quanto tempo queste espressioni sono diventate un luogo comune, ripetuto da ogni solenne cretino cui sia messo davanti un microfono o un foglietto di carta? Quattro anni, cinque anni, dieci? Abbastanza comunque perché si possa pretendere che anche l’ultimo dei cretini, avendo dichiarato “epocale” il “fenomeno”, se ne sia fatto un’idea ed eventualmente l’abbia misurata coi fatti per confermarla o smentirla e cambiarla e rimisurarla coi fatti: insomma, avere un’opinione e, nel caso dei cretini investiti di un’autorità, una linea di condotta. Vediamo. Un giovane tunisino, formato alla scuola della traversata del Mediterraneo e dei centri di accoglienza e della galera e dell’indottrinamento jihadista e della devoluzione della propria aggressività a una causa celeste, compie un massacro terroristico maldestro e orrendo in un mercatino natalizio di Berlino per poi vagare attraverso l’Europa fino a farsi fermare da una pattuglia di poliziotti nel milanese e procurarsi una morte ingloriosa. L’episodio, insieme tragico e grottesco, allunga l’elenco degli attentati terroristici ispirati in Europa dalla scalata del Califfato. Ne viene un colossale rilancio del problema dell’immigrazione, il fenomeno epocale ritratto come se fosse la prima volta pressoché da tutti gli attori della scena pubblica. E poiché tutto è stato detto e sconfessato da tutti gli attori nel corso dei quattro o cinque o forse dieci anni in cui il fenomeno si è fatto conoscere come epocale, gli attori si distinguono per ripetere formule stantie e unilaterali come se le avessero appena pensate.
In particolare, il governo italiano e le sue autorità di polizia lanciano l’idea dei Cie – Centri di identificazione ed espulsione. I Cie sono per lunga e certificata esperienza un espediente fallimentare dal punto di vista dell’efficacia come da quello dell’eventualità di restare umani. E i Cie sono al momento ritenuti un’esperienza chiusa, del tutto o quasi. Però, siccome succede, una giovane donna ivoriana muore in un Cda della provincia di Venezia dov’è detenuta – com’è noto una galera più arbitraria e brutale della galera, benché ospiti persone che non hanno commesso alcun reato – e dove è stata lasciata senza cure e senza il minimo conforto che a persone forse malate, forse incinte per aver attraversato una trafila d’ordinanza di stupri nel loro viaggio alla volta della morte solitaria in un gabinetto del Cie della provincia di Venezia, potrebbe essere assicurato nell’intenzione di restare quasi umani, un po’ di riscaldamento nell’inverno dell’entroterra veneto, per esempio.
Insomma la giovane donna muore e guarda caso i suoi connazionali si ribellano e fanno, alcuni, fuoco e fiamme. Deplorevole istinto alla violenza e al fuoco, tipico delle tribù africane, e premessa a future imprese camionistiche. Nella circostanza il pubblico apprende che in una minuscola comunità c’è un Cda, di quelli che senza l’episodio sarebbero e sono ignorati, in cui un numero spropositato di identificandi ed espellendi vive negli spazi in cui si suppone che possa vivere un sesto di loro, peraltro senza riscaldamento e con un trattamento da parte degli addetti perlomeno dubbio. All’indomani qualcuno ricorda che l’esperienza del Cie si è già dimostrata fallimentare e qualcun altro la rilancia ma correggendola e affermandola diversa dalle precedenti. Così due morti, un giovane tunisino morto per il desiderio di ammazzare ferocemente e farsi un nome, benché rinunciando all’epilogo sacro del martirio suicida, e una giovane ivoriana che non ha fatto male a nessuno e cui tutti hanno fatto molto male, risuscitano le sciocchezze che da dieci anni, o cinque o quattro i vari attori della scena pubblica dicono con veemenza a proposito delle migrazioni, fenomeno, si badi bene, epocale. Si farà un accordo con la Libia, con le Libie, perché le ragazze di 25 anni della Costa d’Avorio muoiano in un cesso dei campi di stupro quotidiano e bastonature libiche, invece di sobbarcarsi – sobbarcarsi, è il verbo – alla traversata e all’approdo nell’entroterra di Venezia. Italiani, ancora uno sforzo.