Dopo aver conquistato e perso sulla terra, il Califfato vorrà il cielo
Mosul e Raqqa stanno per cadere. Adesso che succede?
Mosul è questione di giorni, benché il costo resti alto. Raqqa non aspetterà molto di più. Poi resteranno alcuni conti territoriali minori, in Siria e in Iraq, anche impegnativi, come Hawijia, ma la partita dello Stato islamico, nella forma che ha preso nel giugno del 2014 con la proclamazione del Califfato, è vicina a chiudersi: tardi, comunque. Oggi vorrei avventurarmi in una riflessione per la quale non ho alcuna preparazione: pensieri alla portata di chiunque abbia seguito con sufficiente angoscia gli eventi che vanno almeno dall’inizio della ribellione siriana e del suo spaventoso sviluppo, all’offensiva dell’Isis e alla lentissima risposta internazionale. Dunque fuori dagli interessi della stragrande parte di quella che chiamiamo ancora da noi la politica, la cui infermità mentale nei confronti dello stato del mondo e dei suoi riflessi in Europa è totale. I pensieri che mi girano per la testa si riducono a uno: immaginare che cosa stia per riempire la testa dei terroristi islamisti che sopravvivano alla sconfitta dello Stato Islamico territoriale.
Che ci sia un cambio di stagione per gli ingegneri del terrore jihadista è evidente. Nei giorni scorsi ha circolato un pacchetto di notizie riguardanti la successione interna all’Isis, dopo la rivendicazione russa dell’uccisione di al Baghdadi. La quale non è provata e forse semplicemente non può esserlo. La stessa gerarchia dell’Isis-Daesh, come ha spiegato qui Raineri, non ha un cerimoniale affidabile quanto ai vivi e i morti. E potrebbe lasciar correre la notizia sulla morte del preteso Califfo per facilitarne fuga e nascondiglio, o far correre la notizia opposta per non nuocere al morale delle truppe, già provato. Nell’un caso e nell’altro, il Consiglio – la Shura – di Daesh, che si dice composto di 8 membri, 6 iracheni, un giordano e un saudita, starebbe decidendo di scegliere fra due candidati alla successione di al Baghdadi, ambedue già militari nell’esercito di Saddam: il più anziano Ayad al-Ubaidy, membro di una delle più antiche, estese e influenti famiglie arabe sunnite, oggi titolare del ministero della Guerra di Daesh, e il quasi cinquantenne Eyad al-Jumaily, oggi responsabile dei Servizi di sicurezza. E’ significativo che non figuri alcun candidato “straniero”, perché sono stati decimati, e perché la continuazione viene considerata soprattutto dal punto di vista della guerra fra sunniti e sciiti. Né l’uno né l’altro dei due candidati ha il rango religioso che permetta di nominarsi califfo, e la condizione per l’esistenza del Califfato, il possesso di un territorio stabile e adeguato, sta appunto venendo a mancare. Dovunque se ne tenti la rinascita, in Africa, in Asia, in qualche altro pezzo di medio oriente, è ragionevole che per un periodo piuttosto lungo non possa essere questo il programma dei superstiti e delle nuove reclute.
Si ripete che questa situazione di estrema difficoltà territoriale e di crollo del reclutamento internazionale voglia tradursi in una diaspora del terrore e in una moltiplicazione degli attentati organizzati o improvvisati in giro per il mondo: scenario in parte già attuato, una parte ancora molto contenuta. E’ l’affare delle polizie e della collettiva vigilanza. Immaginiamo invece di essere i superstiti di un’avventura enorme e di un’ambizione senza precedenti nel nostro tempo come l’instaurazione del Califfato, il suo successo mediatico planetario, la sua durata relativamente lunga – più di tre anni sono una lunghissima durata per la mitologia di quel fanatismo. Immaginiamo che ci sia nei ranghi dell’Isis vinto e sparpagliato agli angoli della terra qualcuno che voglia riflettere alle ragioni della vittoria e della sconfitta – un Vincenzo Cuoco dopo la Rivoluzione Partenopea del 1799, vorrei dire, ma già me ne pento. Ma il paragone serve a immaginare meglio la differenza, perché la riflessione di un militante e a maggior ragione di un dirigente jihadista sulle cause della caduta dello Stato islamico è destinata a fissarsi su un unico punto: la questione militare. E poiché argomenti come la politica delle alleanze o la morale della violenza o la “linea di massa” appaiono questioni ridicole al jihadismo, che le ha risolte una volta per tutte nella propria superstizione coranica aggiornata alla pratica della rete, la questione militare a sua volta, mi pare, è destinata a fissarsi su un unico punto: il dominio dei cieli da parte della coalizione internazionale nemica dell’Isis. E’ stato questo, nei lunghi anni di inerzia, di cinismi e di viltà, a fare argine all’impeto dell’Isis, e segnarne alla fine la sconfitta. Per terra, l’Isis ha vinto e se ne porterà per il mondo, coi suoi superstiti, il vanto eroico. Era il contenuto della sfida iniziale di al Baghdadi a Obama: “Vieni giù dal tuo cielo di droni, se hai il coraggio: vediamocela da uomo a uomo”. Un primitivo concetto da bullo, ma è il concetto che trova più presa sulle centinaia di milioni di musulmani (e non solo) anche se non sono seguaci del Califfato. Dotandosi di uno Stato e di un territorio, Daesh è passato largamente dalla guerriglia, che è l’epopea di ogni resistenza, a una specie di guerra regolare, arricchita dall’esperienza di guerriglia, come nel caso di combattenti provati come i ceceni o gli “afghani” e i quaedisti di varia origine.
Hanno sbaragliato alcuni nemici, soprattutto l’esercito iracheno all’inizio, e fronteggiato altri, come i curdi, cui, salvo uno sbandamento iniziale, non faceva difetto la prodezza ma gli armamenti sì. Il limite dell’avventura roboante e orrenda dell’Isis è stato nella sua esclusione completa dal cielo. Il cielo dei bombardamenti aerei mirati – quelli per cui la shura dell’Isis ha paura di radunarsi per non finire al completo sotto un missile – dei bombardamenti che aprono la strada alle truppe di terra alla vigilia di una battaglia e durante, dei colpi dei droni e dell’universale sorveglianza dall’alto. A Mosul, alla vigilia della battaglia finale, il genio militare dell’Isis si dedicava alla fabbricazione di droni, poco più che aeromodelli capaci di trasportare qualche bomba di poca taglia, ma simbolici per l’immaginazione del futuro.
Lo stesso Assad in Siria, quando ancora i protettori internazionali russi e iraniani non avevano messo tutto il peso schiacciante della loro forza dalla sua parte, non era stato spazzato via solo grazie al dominio dei cieli, bombe e barili. Il terrorista jihadista sfollato da Mosul o da Raqqa e rintanato in una boscaglia nigeriana o in una grotta pakistana con tanto tempo per riflettere ripenserà ai cieli come il campo, oltre che come il traguardo, della sua vocazione omicida-suicida. Il terrorismo islamista, quello degli attentati, non degli scontri in campo aperto, ha la sua tradizione maggiore nei cieli degli aerei dirottati o fatti esplodere, fino alla gloria dell’11 settembre, un trionfo sulla infinita superiorità tecnica del nemico ritorta contro il nemico, e prima ancora dell’audacia di immaginazione terrorista contro il manco di immaginazione del nemico. E’ difficilissimo portare due grandi aerei di linea dentro le Torri Gemelle, ma ancora più difficile è immaginare di farlo. Quando un pilota della Lufthansa troppo triste ha guidato il suo aereo a schiantarsi con tutto il suo carico umano a lui ignoto i miliziani dell’Isis devono aver pianto da intenditori tanto spreco: come coi suicidi. Loro sì che conoscono il buon uso del suicidio. Tuttavia anche la temerarietà dell’immaginazione tocca il suo limite. Lo Stato islamico è durato più di tre anni, ha controllato mozzando teste e mani un territorio enorme e grandi città, ha ipnotizzato gli spettatori dei suoi reality televisivi – ma non ha avuto un solo aereo da impiegare. E’ corsa la leggenda su un bombardiere giordano catturato, su qualche caccia siriano di disertori…: favole. E tuttavia, niente è eterno. Il monopolio del controllo dei cieli da parte di Stati militarmente agguerriti, indipendentemente dalle dimensioni, non è eterno. Il bilancio del Califfato nei suoi superstiti irriducibili riguarderà il cielo. Il cielo del terrorismo e quello delle imprese regolari. Qui i miei pensieri si fermano, per l’incompetenza tecnica e l’immaginazione che si impunta, come un cavallo davanti a un ostacolo spiacevole. Qualcun altro ci starà già pensando, anche da questa parte, spero.