Viva Mosul senza più Califfato, ma la vergogna per la comunità internazionale resta
Era durata tanto l’agonia della grande città irachena. Festeggiamo prima di pensare all’agenda terribile della nuova fase
Vorrei esprimere una sentita costernazione per il modo in cui la generalità dei media occidentali, compresi i migliori (i non migliori sono distrattissimi) stanno trattando la proclamata liberazione di Mosul. Nei commenti e ancora più nei titoli prevale l’ammonimento sui pericoli della fase nuova aperta dalla cacciata del Califfato dalla grande città. In alcuni si annuncia già che il futuro potrà essere peggiore del passato. Trovo che questa realistica saggezza si avvicini all’indecenza. I quattro lettori che abbiano seguito questa rubrichetta sanno quale intrico di guerre per bande e per potenze si sia ulteriormente accumulato in quella mesopotamia infelice, favorito dal lunghissimo orrore della guerra siriana, sei anni, e dello Stato islamico, oltre tre anni. Oggi, nella Mosul pressoché espugnata, c’è un ingorgo di violenze perpetrate e progettate: vendette di sunniti contro i concittadini complici dell’Isis, vendette di milizie sciite contro cittadini sunniti, sparizioni, “renditions” in altri stati, non più (solo?) americane, proliferazione di milizie private a contratto, campi incontrollati di “rieducazione” per sospetti jihadisti, campi di sfollati gestiti alla spiccia. E poi l’invadenza crescente di forze sciite di obbedienza iraniana nella Mosul sunnita, invadenza militare e “sociale”, alla maniera di Gaza. Gli appetiti rivali su Mosul delle potenze vicine, Turchia e Iran, e di quelle “lontane”, Stati Uniti e Russia. La tenuta dell’Isis in alcune roccaforti, da Deir Ezzor a Hawija. Il terrorismo degli attentati su cui, senza avervi mai rinunciato, ora i superstiti dell’Isis concentreranno per un po’ le loro sortite. E così via, in un elenco implacabile. Destinato a essere “peggiore” del passato prossimo? Sentiremo, di cui a qualche mese o qualche anno, rimpiangere il Califfo così come sentiamo quotidianamente rimpiangere Gheddafi?
Mosul è stata per tre anni la capitale dei torturatori, dei decapitatori, degli stupratori di bambine e donne schiave e degli addestratori di bambini assassini e suicidi. C’è una sola ragione per moderare la festa, se non di una liberazione, della cacciata dello Stato islamico dalla sua grande capitale: che essa abbia tardato tanto a venire, a vergogna della comunità internazionale e della sua porzione democratica. Senza l’intervento americano, del resto, il Califfato sarebbe ancora saldamente in sella. Ho ricordato che, sconfitto dalla coalizione fra i cieli degli americani e di qualche alleato e il suolo dei curdi e infine, a Mosul, degli iracheni riabilitati, lo stato islamico vanterebbe la propria invincibilità sul campo. E però ora bisogna farla quella festa, a denti stretti e pugni chiusi, ma farla. C’è un’altra cosa, forse la più importante, in questo momento. I nove mesi di battaglia per Mosul sono costati un prezzo assai alto di vite umane, di feriti e cacciati. Le stesse forze speciali irachene che orgogliosamente festeggiano sono state decimate come raramente avviene nei conflitti contemporanei. Nessuno ha il conto dei morti. C’è un conto di sfollati, attorno a un milione di persone. Ce n’è uno economico, per l’affare colossale che sarà la ricostruzione: ieri il New York Times scriveva di 700 milioni di dollari, se non ho letto male. O era un errore di stampa madornale o uno strafalcione contabile. Ma bisogna ricordare che mai nella storia, dopo la Seconda guerra, un’armata di invasati era arrivata a tenere in ostaggio una popolazione civile di un milione e mezzo – o più, o meno. Chi abbia seguito passo dietro passo, e così a lungo, la vicissitudine di Mosul ha temuto una carneficina smisuratamente più grave. I jihadisti che godono di mandare al loro inferno gli infedeli e gli apostati godono ancor più di acquistare a sé il loro paradiso. La gente sunnita di Mosul, quella che non fu apertamente indocile, non poteva essere mandata all’inferno dai campioni della conquista islamista. Che avrebbero però potuto essere tentati di portarsela nel loro paradiso, in un olocausto immane che consegnasse ai posteri un retaggio di gloria. Avevano i mezzi per farlo, compresa la bestialità necessaria. Non l’hanno fatto: hanno sostituito a quel collettivo suicidio forzato il suicidio simbolico della moschea di al Nuri e del minareto pendente, altari loro e di nessuno. Non appaia un calcolo cinico, ma anche per questo c’è da salutare la liquidazione dell’Isis dalla grande città in rovina. Era durata tanto l’agonia. Avventore usuale di quella regione, avrei disperato di camminare con le mani in tasca per una via di Mosul e negoziare scherzosamente con un fruttivendolo sul prezzo dell’uva nera. Dunque, guardandomi le spalle, faccio discretamente festa. Poi passiamo all’agenda terribile della nuova fase.