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Quello che Formigli non comprende della guerra all'Isis

Il vero problema sollevato da Formigli riguarda quella che gli pare una barbarie universale e un modo di sconfiggere lo Stato islamico nella sua capitale siriana ignorando le vittime civili da parte degli americani

Corrado Formigli ha mostrato giovedì nel suo Piazzapulita un importante reportage da Raqqa, realizzato con Vincenzo Gioitta e Paco Sannino. Mi congratulo con loro, non per la prima volta, e di nuovo sono perplesso rispetto alle domande che Formigli ha posto attraverso il servizio.

 

Non commento la discussione in studio, che per definizione, indipendentemente dai suoi protagonisti, ha poco a che fare con il vero problema. Il vero problema sollevato da Formigli riguarda quella che gli pare una barbarie universale e un modo di sconfiggere lo Stato islamico nella sua capitale siriana ignorando le vittime civili da parte della coalizione che bombarda dal cielo, cioè gli americani, e da parte dei combattenti a terra, curdi i più. Gli sembrano addirittura vili, per la frase pronunciata da uno di loro (c’è un gruppo di almeno tre cecchini asserragliati in un palazzo, e si è chiesto l’intervento aereo per debellarli).

 

Formigli si chiede se il fine di liberare Raqqa dall’Isis giustifichi i metodi seguiti e se non si potesse fare diversamente. Come si potesse fare diversamente non sa lui e non so io e non ho sentito altri che lo sappiano. L’unica risposta che mi viene in mente, ormai consumata, è che quando si lascia una violenza feroce e invasata come quella del sedicente Califfato installarsi in un enorme territorio, proclamarsi stato, esercitare il proprio potere fanatico e prendere in ostaggio l’intera popolazione civile, per più di tre anni, è inevitabile che la “liberazione”, quando finalmente avvenga, abbia un costo enorme di vittime umane e di distruzioni di cose – città, stanze domestiche amate, monumenti pubblici magnifici, scuole e cimiteri. Non conosco direttamente la partita di Raqqa: il reportage di Formigli mostrava un quadro molto più brutale di quello prevalente nei servizi sui combattenti curdi del Rojava, e specialmente le combattenti, qui assenti. Ma il loro valore e il prezzo che pagano mi sembra difficile da contestare. Anche a Mosul le vittime civili sono state più numerose di quanto sia stato detto ufficialmente finora, benché molto meno numerose di quanto si potesse fondatamente temere in una città di un milione e mezzo stretta fra occupanti e liberatori. I bombardamenti aerei possono essere più o meno cinicamente misurati: i russi e Bashar hanno insegnato fino a che punto. Ma dopo che per tre anni e mezzo un regime di terrore e di plagio ha dominato una grande città e il suo territorio e l’ha trasformata in un enorme campo minato e in una fabbrica di armi e combattenti suicidi, com’è avvenuto a Mosul, come a Raqqa, non c’è un altro modo di “vincere”. A Mosul l’esercito iracheno che era vergognosamente crollato nel 2014 di fronte all’avanzata dell’Isis ha pagato nei lunghi mesi della controffensiva un prezzo di caduti impressionante e ancora ignoto. Non bisognava lasciar infierire così a lungo la barbarie del Califfato, quando non la si sia addirittura favorita. E’ difficile, dopo, cavare il ragno dal buco. La strategia delle democrazie, non dico delle derelitte Nazioni Unite, è di lasciare che un malanno curabile si aggravi fino al ricorso alla chirurgia di urgenza, e può succedere che i chirurghi convocati lo dichiarino inoperabile. E’ quello che i chirurghi a consulto stanno certificando a proposito della Corea del nord. Forse la diplomazia può ancora qualcosa con la Corea del nord. La diplomazia non poteva niente col Califfato, dal primo momento.

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