L'ultima trattativa prima del voto curdo
A cinque giorni dal referendum nella regione curda irachena e nelle sue “terre contese” c’è una doppia scena
Erbil. A sei giorni, cinque per voi che leggete, dal referendum nella regione curda irachena e nelle sue “terre contese” (un 40 per cento in più rispetto ai confini precedenti la guerra con l’Isis), c’è una doppia scena. La prima riguarda quello che avviene alla luce, piuttosto abbagliante in questa estate a oltranza: caroselli di auto imbandierate, grandi manifestazioni di massa, come quella tenuta ieri dentro la Cittadella di Kirkuk con l’intervento del vicepresidente Rasul Kosrat e del governatore Najmaldin Karim (destituito dal parlamento di Baghdad, dunque molto in auge qui). Contro una festa referendaria a Kirkuk un agente di guardia del Fronte turcmeno ha sparato e ucciso un peshmerga e ferito altre due persone. La seconda scena ospita il turbinio di iniziative diplomatiche, attorno all’obiettivo di scongiurare il referendum.
Non elenco gli innumerevoli comunicati congiunti, e annoto solo la riunione di lunedì fra il presidente Barzani, principale promotore del referendum, e i leader curdi, e il ministro della difesa britannico, Michael Fallon, il quale riteneva di rappresentare anche la posizione della segreteria delle Nazioni Unite. La delegazione curda avrebbe aderito, o addirittura proposto, un’alternativa allo svolgimento del referendum imperniata su due condizioni: che Baghdad si impegni a trattare l’indipendenza del Kurdistan (versione attenuata: l’indipendenza o la confederazione); che su questo impegno e sulla sua scadenza (versione ufficiosa: due anni) ci sia un’affidabile garanzia internazionale. Conclusione esposta a due opposte reazioni fra gli stessi curdi. Gli uni, i disponibili a una revoca del referendum sia pure in tempi così ultimi, avvertono intanto che Baghdad non accetterà simili condizioni, e argomentano che un negoziato internazionalmente garantito sull’indipendenza sarebbe comunque una vittoria curda, maggiore dell’esito stesso del referendum. Gli altri, i sospettosi di una ritirata in extremis, pensano che nessuna condizione formale impedirebbe ai nemici del referendum di cantare una sostanziale vittoria, dal momento che la partita si era ormai ristretta alla tenuta o al rinvio del referendum; che due anni nello stato di disordine esplosivo del medio oriente valgono quanto dire mai (la costituzione irachena fissava al referendum su Kirkuk la scadenza del 2007, cioè scaduta da dieci anni…); e che riarrotolare e reintascare i milioni di bandierone e bandierine sventolate in questa vigilia di referendum costerebbe alla gente curda una mortificazione amarissima.
Quanto all’autorevolezza della mediazione britannica, meglio sorvolare, dopo la prestazione del referendum sulla Brexit. Aspettiamo allora Baghdad, e il rispettivo gioco delle parti. Se qualcuno, compreso il primo ministro Abadi, deciderà che la revoca del referendum è un affare sufficiente a mettere in secondo piano la firma di qualunque condizione (la rinuncia al referendum resta, le carte firmate passano, e anche i firmatari) i suoi rivali grideranno al traditore e alla svendita della sacra unità dell’Iraq. Situazione difficile. Ma ancora più difficile sarebbe quella di un Barzani impegnato a spiegare agli ammainati sbandieratori curdi che la rinuncia al referendum è una vittoria. Pare che lo stesso Barzani sia uscito per una volta sorridente dalla riunione di ieri. Chissà se sorrideva sperando di essere comunque scampato a un assedio internazionale troppo pesante, o sperando che gli interlocutori di Baghdad non se la sentano di firmare le condizioni, e lascino i curdi votare dicendo al mondo: noi abbiamo fatto di tutto. A proposito, il referendum è consultivo, diremmo noi, “non vincolante”. Serve a mettere in tasca alla leadership curda un certificato di volontà popolare. Il quesito per una volta si capisce: “Vuoi che la regione del Kurdistan e le aree curde al di fuori dell’amministrazione della regione diventino uno stato indipendente?” Si può rispondere Sì o No.