Il referendum catalano visto dai curdi
Se si sovrappongono le immagini del voto catalano a quelle per l'indipendenza del Kurdistan, il risultato è impressionante
Immaginate di guardare video e foto di Barcellona dal Kurdistan iracheno, che ha tenuto pochi giorni fa nell’ordine assoluto il proprio referendum. Spaesamento, se mai ce ne fu uno. La Catalogna era stata solidale coi curdi e i curdi fanno il tifo per la Catalogna, senza troppe distinzioni, e la barbarie poliziesca ha chiuso la partita e offuscato le differenze: enormi, naturalmente. Qui al referendum ha partecipato il 75 per cento degli aventi diritto, e votato Sì il 93 per cento. Qui nessuna forza dell’ordine avrebbe potuto intervenire a impedire il voto se non affrontando le forze dei peshmerga, che sono, senza mitizzarle, la cosa più vicina a un popolo in armi che si trovi al mondo d’oggi. Qui il referendum evocava il desiderio dell’indipendenza, rinviando a una lunga trattativa – di due anni, nell’intenzione dei promotori curdi – ogni conseguenza istituzionale. E così via. Ma la sovrapposizione delle immagini resta impressionante.
Come leggere da Erbil e Suleymanyah, i cui aeroporti sono chiusi ai voli internazionali dallo scorso venerdì, e anche (se pure meno ermeticamente) i valichi di terra, che il demenziale governo di Madrid aveva vietato lo spazio aereo su Barcellona ad aerei leggeri ed elicotteri, per impedire le riprese aeree delle manifestazioni indipendentiste! Grandissima è la confusione sotto i cieli, e la situazione è mezzo tragica mezzo grottesca. Qui i molto ottimisti dicono che la tensione si attenuerà gradualmente, e che ogni giorno che passa senza il passaggio alle armi è un giorno guadagnato al ritorno alla normalità. Gli ottimisti moderati dicono che i vicini più furiosi e frustrati (leggi: gli iraniani) non potranno rinunciare alla prova di forza, e che il Kurdistan dovrà pagare un prezzo di sangue alla sua sfida, prima che il resto del mondo (leggi: gli americani) intervenga a fermare la violenza. I pessimisti pensano che la guerra – “la montagna”- sia l’orizzonte inevitabile della rivendicazione di indipendenza curda.
Voglio eludere per il momento ogni gara di pronostici fornendo la notizia che importa: oggi, lunedì, si sono riaperte le scuole di ogni ordine e grado del Kurdistan. Ho chiesto alla preside di una scuola media femminile curda di Kirkuk (dove la scuola primaria è spesso mista, la gran maggioranza delle superiori è distinta in curde, turcmene e arabe) se il primo giorno dell’anno avrebbe ospitato cerimonie peculiari legate al referendum appena svolto, in quelle stesse scuole. “No – ha detto – saluterò le ragazze, raccomanderò di non perdere troppo tempo col trucco e coi telefonini, e poi andranno nelle loro aule”.