Nel medio oriente lacerato torna auspicabile un disegno federalista
Cosa succede nel Kurdistan iracheno e le strategie di Stati Uniti e Iran
Erbil. Cinque anni fa venni per la prima volta nel Kurdistan iracheno, per visitare i campi che si riempivano di profughi siriani. Fui colpito dai discorsi sul federalismo di alcuni politici curdi, che facevano di necessità virtù. Poiché la conquista di uno stato indipendente sembrava del tutto irrealistica, essi immaginavano una crescente autonomia per i curdi, già più ampiamente realizzata nel loro territorio, nel contesto di una trasformazione federalista della regione, che avrebbe prima di tutto riequilibrato i rapporti fra i sunniti che erano stati al potere con Saddam e la maggioranza sciita insediata dopo la guerra americana all’Iraq. La rinuncia alla prospettiva dello stato nazionale, imposta dai rapporti di forza, veniva arricchita, come succede, dalla riflessione sulla sua obsolescenza. Argomenti stimolanti altrettanto per i rapporti fra Israele e Palestina, e per il ruolo possibile di un’Europa europeista, per così dire. Del resto da tempo voci autorevoli, anche americane, suggerivano la divisione in tre dell’Iraq, la cui unità appariva sempre più artificiosa e forzata. Poi la guerra all’Isis, il disastro iracheno e il ruolo primario ricoperto dai peshmerga con la coalizione internazionale guidata dagli americani hanno assegnato una inaspettata attualità al sogno di uno stato curdo indipendente, che i curdi iracheni hanno coltivato sospendendo per oltre tre anni la propria ordinaria esistenza civile e trasformandosi nell’esercito di terra dell’occidente, fino alla liberazione di Mosul. A questo punto i vecchi capi, Masud Barzani e Ali Rasul Kosrat soprattutto, hanno creduto di aver acquistato il credito necessario e presentato il conto, sia pure nella forma di una consultazione popolare, col referendum sull’indipendenza. Il seguito è noto. I capi curdi lasciano invitando a tenere accesa la fiammella dell’indipendenza: forse è più auspicabile che si torni a pensare a un vicino oriente cambiato, com’è inevitabile dopo la frantumazione della Siria e l’infamia dello Stato Islamico, secondo un disegno federalista, e di nuovo l’Europa potrebbe avere una parola, se si ricordasse di sé.
Ora gli americani, che hanno avuto una parte decisiva nella denuncia del referendum e nell’offensiva iracheno-iraniana di punizione del Kurdistan, agiscono secondo un programma così ricostruibile: tenere insieme un Iraq premiato e un Kurdistan castigato attraverso il sostegno al primo ministro Abadi, in vista delle elezioni irachene fissate per la primavera. Abadi dovrebbe appoggiarsi di più al versante arabo e svincolarsi dalla stretta dell’Iran, e dei suoi rivali interni “iraniani”, il vecchio Maliki e i capi delle milizie Hashd al-Shaabi che hanno preso un peso enorme. Che Abadi non finisca come un vaso di coccio fra Iran e Usa è assai incerto. Khamenei lo ha avvertito a proposito dello scioglimento, velleitariamente ventilato da Tillerson, delle bande Ashd. Le quali a loro volta avvertono lui – “Ashd al-Shaabi è l’organizzazione più influente nelle elezioni irachene”, ha detto Mohandis, il loro vice-capo, in un’intervista all’AP – e gli americani. Per i quali Mohandis è tecnicamente “un terrorista”. L’altro giorno partecipava a un convegno a Baghdad sulla lotta al terrorismo, e incontrava a tu per tu il rappresentante delle Nazioni Unite.
Poi c’è il Kurdistan, sulla cui tenuta unitaria non scommetterebbero in molti oggi. Suleymanyah è lacerata. A Erbil l’interlocutore degli Usa dopo il ritiro di Masud è il primo ministro del governo curdo, Nechirvan Barzani, che di Masud è nipote e genero, e il suo vice è un Talabani, Qubad, figlio di Jalal. Non cambiano i nomi, cambia la generazione. Nechirvan era stato più tiepido sul referendum, a differenza di suo cugino Masrur, che di Masud è figlio, titolare dei servizi di sicurezza. Avranno tutti il loro daffare.