Gli effetti delle proteste in Iran sul Kurdistan iracheno
La crisi iraniana fa intanto traballare soprattutto il Puk, già partito egemone a Suleymanyah e lacerato da rivalità e tradimenti maneggiati da Teheran
A guardarla dal Kurdistan iracheno, la ribellione dei giovani iraniani cambia le carte in tavola, e forse rovescia la tavola. Il primo ministro iracheno, Abadi, che si barcamena fra americani e iraniani ma ha i secondi alle porte di casa, sarà indotto probabilmente a fare i conti con gli ultimatum di cui si è compiaciuto dal 16 ottobre, la notte dell’invasione di Kirkuk, a oggi. Ieri sono andati in visita a Erbil il ministro della Difesa di Baghdad e il grande ayatollah al Hakim. Sempre ieri sono stati riaperti tutti i valichi di terra fra Iran e Kurdistan. La crisi iraniana fa traballare soprattutto il Puk, già partito egemone a Suleymanyah (e a Kirkuk, fino alla notte di ottobre) e lacerato da rivalità e tradimenti maneggiati da Teheran. Allo stesso tempo non può sfuggire una somiglianza fra le proteste che avevano infiammato lo stesso Kurdistan una decina di giorni fa e quelle iraniane in corso. Anche in Kurdistan si erano assaltati edifici pubblici e di partiti, c’erano stati morti fra i manifestanti. Anche là il movente iniziale era stato economico, il mancato pagamento o comunque il taglio drastico dei salari, la denuncia della corruzione, ed era bruscamente trapassato nella mobilitazione politica dei giovanissimi. Lunedì, come succede ovunque, c’era in Kurdistan una gara a registrare il primo nato del 2018 e così si è saputo che nella sola Erbil sono nati in un giorno 77 bambini. Gara vinta dai curdi anche in Turchia. Senza farsi troppe illusioni, soprattutto in paesi dove il potere è patriarcale e fa gran scialo delle armi, fra le nuove generazioni, là così numerose, c’è un’affinità minacciosa per il potere, che la tiene a bada coi miti nazionalisti e settari. Per sempre?