Le truppe turche avanzano verso Hassa, nella provincia di Hatay (foto LaPresse)

La Turchia avanza sui curdi di Afrin e le grandi potenze osservano

Adriano Sofri

Così la guerra al confine infiamma quella fra esercito turco e curdi del Pkk

Fra i nomi che gli aggressori danno alle loro operazioni guerresche quello che la Turchia di Erdogan ha dato all’offensiva contro l’enclave curdo-siriana di Afrin resterà memorabile per impudenza e ovvietà: “Ramo d’olivo”. L’hanno porto, il ramoscello, bombardamenti di caccia e artiglieria e avanzata di carri ammassati da tempo al confine. Notevole è anche la dichiarazione di Erdogan: “Non siamo soli: Allah è con noi”. Anche a non voler ricordare la traduzione tedesca – “Gott mit uns” – bisogna pur ricordare che le popolazioni coinvolte dentro e attorno a quel territorio sono nella stragrande maggioranza anch’esse musulmane. In teoria la Turchia è davvero isolata: la Damasco di Bashar al Assad chiama l’offensiva turca terrorista; il grande protettore russo la deplora (ma ritira i suoi osservatori e le sue truppe per dare via libera ai turchi in terra e più ancora nel cielo); gli americani, partner di Ankara (come noi) nella Nato, stanno coi curdi siriani del Rojava che hanno liberato Raqqa, ma per ora fischiettano distrattamente. La Francia ha chiamato alla convocazione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per fermare l’avanzata su Afrin: fatto compiuto che come mai altri era stato annunciato minacciato e ostentatamente preparato da mesi, e via via più stentoreamente. La sicurezza e l’urgenza guadagnerebbero a essere evocate prima che i fatti divenissero compiuti. Afrin è al centro di un piccolo distretto nel governatorato di Aleppo, però strategicamente decisivo per l’utopia di una striscia curda che dal Rojava di Qamishli arrivi al Mediterraneo. Dopo quattro giorni i civili ammazzati sono già numerosi, e i militari anche: da parte curda si rivendica di aver ucciso anche “un gran numero” di militari assalitori. Le “Unità di protezione popolare” (Ypg) e “di difesa delle donne” (Ypj) del Pyd curdo si battono certo strenuamente, facendo appello a una nuova Kobane, consapevoli che per la Turchia schiacciare il cantone di Afrin è il primo passo verso la cancellazione del loro autogoverno nel Rojava, ma lo squilibrio delle forze militari è colossale.

 

E’ inevitabile che la guerra di Afrin esacerbi quella fra esercito turco e curdi del Pkk nel sud-est della Turchia. Nel Kurdistan iracheno, che col Rojava curdosiriano confina, Barzani si è limitato a dire che la soluzione pacifica è preferibile, mentre il Puk di Suleymanyah, reduce fresco da fracassi domestici, ha ventilato un intervento volontario accanto ai fratelli di Afrin, aggiungendo che “non è possibile”. Quello che è chiaro è che nel più vasto Medio Oriente ogni potenza regionale si arroga il diritto di attaccare militarmente il suo nemico prediletto senza accettare alcuna limitazione nel diritto internazionale né in calcoli di forze, e tantomeno nel famoso rispetto dei confini ufficiali. Le potenze internazionali fanno lo stesso, senza chiedere permesso lo sbrigativo Putin, in una incresciosa impotenza gli Stati Uniti, non per una maggiore soggezione alla legge ma per la grottesca assenza di scelta politica.

 

Un cambiamento potrebbe venire se la resistenza curda ad Afrin si rivelasse capace di costare alla Turchia un prezzo più caro del previsto. Secondo Erdogan, gli americani gli avrebbero chiesto che l’operazione contro Afrin “non duri troppo”. Era appena successo nel Kurdistan iracheno, invaso dall’Iran per interposta Baghdad col beneplacito della “coalizione” a guida americana. Ora tocca ad Afrin, domani si vedrà. E l’Europa? Già, l’Europa.

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