Joseph Kabila (foto LaPresse)

Brutte notizie elettorali dal Congo, dove il mondo sconfina ma non se ne occupa

Adriano Sofri

L’ombra eterna di Kabila e due sfidanti non rassicuranti

Mi ha impressionato, in un breve viaggio in Congo, nel Kivu – tutto, mi ha impressionato. In particolare l’appello, l’invocazione spesso, a raccontare e scrivere nei nostri paesi felici le cose di là: sono soprattutto, ma non solo, i portavoce e gli esponenti della chiesa cattolica e delle altre chiese cristiane a chiederlo. Ho sentito dovunque con quale apprensione si aspetti l’appuntamento – in dubbio, del resto, tutto è in dubbio – del 23 dicembre, quando dovrebbero tenersi le elezioni presidenziali.

     

Il mandato del presidente Joseph Kabila, nominato nel 2001 dopo l’uccisione di suo padre, è scaduto definitivamente nel 2015 e da allora viene prorogato. Molti temono che in extremis Kabila voglia ancora candidarsi, moltissimi temono che l’avvicinarsi delle elezioni scateni nuovi disordini se non un’ennesima recrudescenza della grande guerra africana che si combatte nella Repubblica Democratica del Congo al costo di milioni di vittime, delle armi o delle loro conseguenze. Non è una guerra civile, benché ne abbia una spaventosa spietatezza, perché è un pullulare di guerre in cui intervengono, attraverso bande supplenti e mercenarie, un gran numero di Stati confinanti – la RDC confina con 9 paesi – e di grandi potenze distanti: il mondo intero confina e sconfina nel cobalto, nel coltano, nei diamanti e nell’oro e nel rame del Congo.

   

I maggiori pretendenti alla successione di Kabila erano fino a pochi giorni fa un paio, a loro volta in dubbio. Il più autorevole si chiama Moïse Katumbi, è nato nel 1964 e vive in esilio, dopo essere stato il beniamino di Kabila e il governatore del Katanga. Katumbi è figlio di Nissim Soriano, un ebreo sefardita di nazionalità greca che riparò durante la Seconda guerra da Rodi, sotto occupazione italiana, al Congo. La cittadinanza italiana di Moïse, a San Vito dei Normanni, è ora il principale pretesto per escluderlo dalla candidatura, benché vi abbia rinunciato, tardi, l’anno scorso.

    

Nei giorni scorsi la partita presidenziale è stata stravolta da una decisione del tutto inattesa della Corte Penale Internazionale dell’Aia, che giudicava in appello Jean-Pierre Bemba, 55 anni, il più forte degli uomini forti congolesi, rivale di Kabila nelle scorse elezioni presidenziali, 2006, in cui si crede che furono i brogli colossali a portargli via la vittoria, finché nel 2008 la CPI lo arrestò in Belgio, dove era fuggito, e lo imputò di crimini contro l’umanità e crimini di guerra (stupri “etnici” come armi di guerra, stragi e saccheggi; in un processo laterale si evocarono anche episodi di cannibalismo contro pigmei) commessi dalle sue truppe, l’Esercito di Liberazione del Congo, ELC, nella repubblica di Centrafrica. Esattamente due anni fa la Corte, che aveva in Bemba il suo più importante imputato dalla fondazione, lo condannò alla pena severa di 18 anni di reclusione.

  

E ora l’appello lo ha scagionato e liberato, dopo dieci anni scontati, dichiarando provata l’assenza personale di Bemba sul luogo e nel momento di quei crimini, che nel processo erano stati testimoniati da migliaia di vittime. Bemba resta colpevole solo di aver corrotto dei testimoni, circostanza superata dal carcere già trascorso, ed è tornato a Bruxelles, e da lì la sua ombra si allunga sul 23 dicembre delle elezioni prossime. La notizia, vecchia di alcuni giorni, è passata pochissimo osservata in Italia, salvo che io l’abbia mancata: eppure è una notizia enorme per una parte decisiva della storia del mondo contemporaneo, e per quella periferia europea in cui si volle sperare di esercitare una giustizia internazionale.

 

Capisco la disperazione dei congolesi che chiedono di parlare del Congo. Del resto i morti delle guerre e delle calamità congolesi sono milioni, ma i vivi che arrivano in Italia sono ancora parecchio al di sotto dei diecimila: pochi, persino per i novissimi governanti.