Liberarsi dal desiderio di morte
Benedetto Croce, “sopravvissuto” al terremoto del 1883 di Casamicciola
“Alla buonora, era malato anche Croce” scrisse una volta Cesare Garboli, salutando una fessura nell’idea costituita di un Benedetto Croce imperturbato. Malato di che cosa? Alfonso Musci (“La ricerca del sé. Indagini su Benedetto Croce”, ed. Quodlibet 2018), muove dal Croce diciassettenne “sopravvissuto” al terremoto del 1883 di Casamicciola, Ischia, che vivrà da allora con l’ombra dei suoi morti; la sorella Maria, la madre e il padre, sepolti dalle macerie con altre migliaia. Il neoidealismo, presentato come una grande e armonica architettura, è piuttosto una casa ricostruita pezzo per pezzo (il laterizio color mattone dei volumi Laterza, disse Renato Serra) dalle rovine. La relazione tra “ragione” e “distruzione” non fu certo nuova al pensiero meridionale: dal 1693 in Val di Noto all’ecatombe di Messina (1908), a cadenza regolare, le vittime saranno centinaia di migliaia, segnando i dibattiti illuministici, di accademie e pensatori - e persone comuni.
Il libro è dedicato soprattutto alle scritture private, all’autobiografia, ai taccuini, alle lettere, alla bibliofilia. Ricerca del sé, scrittura del sé sono concetti psicologici che Musci prende in prestito puntando sull’interpretazione che Croce stesso allontanava da sé - Non occupatevi del mio io, è una “parvenza fissata dal nome”. Proprio la sepoltura dell’individuo Croce e il ricercato distacco dai legami intimi rispondono, suggerisce Musci, all’“angoscia nevrotica” studiata da Freud e da Melanie Klein. L’angoscia, dirà Croce, che da “selvatica e fiera” diverrà “domestica e mite” liberandolo dal desiderio di morte, dall’emulazione dei morti, dal “lurido suicidio” come estremo gesto di sopravvivenza. Un Croce ferito e notturno che rinuncia all’io mordendosi per tenere a bada il dolore. La sua metafisica dell’impersonale non è la riduzione dell’individuo come si troverebbe presso un comune scolaro di Hegel: è un “sopravvissuto” che si leva pieno di vertigine sui cadaveri e ne teme la persecuzione. E che ingigantisce il suo Io sino al “narcisismo cosmico” di un’ideologia che nega la morte.
Tra gli allievi, dice Musci, è Ernesto De Martino quello che più si è addentrato nell’animo di Croce, ricavandone temi preziosi per la sua antropologia: la crisi della presenza, il cordoglio, il pianto rituale, la fine del mondo. Proprio “Morte e pianto rituale” (1958) sarà presentato da De Martino come un commentario al frammento crociano “I trapassati” (1915), scritto dopo la morte dell’amata Angelina Zampanelli. “Che cosa dobbiamo fare degli estinti? [...] cercando che i morti non siano morti, cominciamo effettivamente a farli morire in noi”. Il potere del trauma, il rendere tutta la storia “storia contemporanea” e predisposta alla risurrezione, alla stregua della personale “sopravvivenza”, promessa fragile d’invulnerabilità. Aby Warburg che fu un poderoso filologo delle angosce e delle paure altrui e proprie, molto tempo dopo un fugace incontro con Croce a Napoli lo descrisse in una lettera come “diffusore di luce”, “gnomo che sale dalle profondità della terra con scintillio inquietante”, cogliendo la risalita dal sottosuolo e il morso della catastrofe di Casamicciola che lo lasciò zoppo per tutta la vita.